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Intervento in Piazza Navona
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Piazza Navona e le cose che non si possono dire
l'Unità, 10 luglio 2008
Lettera aperta al direttore
Caro direttore,
quando tutta la stampa (Unità compresa), tutte le tv e persino alcuni protagonisti dicono la stessa cosa, e cioè che l’altroieri in Piazza Navona due comici (Beppe Grillo e Sabina Guzzanti) e un giornalista (il sottoscritto) avrebbero “insultato” e addirittura “vilipeso” il capo dello Stato italiano e quello vaticano, la prima reazione è inevitabile: mi sono perso qualcosa? Mi sono distratto e non ho sentito alcune cose - le più gravi - dette da Beppe, da Sabina e da me stesso? Poi ho controllato direttamente sui video, tutti disponibili su you tube e sui siti di vari giornali, e sono spiacente di comunicarti che nulla di ciò che è stato scritto e detto da tv e giornali (Unità compresa) è realmente accaduto: nessuno ha insultato né vilipeso Giorgio Napolitano né Benedetto XVI. Nessuno ha “rovinato una bella piazza”. E’ stata, come tu hai potuto constatare de visu, una manifestazione di grande successo, sia per la folla, sia per la qualità degli interventi (escluso ovviamente il mio).
Per la prima volta si sono fuse in una cinque piazze che finora si erano soltanto sfiorate: quella di Di Pietro, quella di molti elettori del Pd, quella della sinistra cosiddetta radicale, quella dei girotondi e quella dei grillini, non sempre sovrapponibili. E un minimo di rigetto era da mettere in conto. Ma è stata una bella piazza plurale, sia sotto che sopra il palco: idee, linguaggi, culture, sensibilità, mestieri diversi, uniti da un solo obiettivo. Cacciare il Caimano. Le prese di distanza e i distinguo interni, per non parlare delle polemiche esterne, sono un prodotto autoreferenziale del Palazzo (chi fa politica deve tener conto degli alleati, delle opportunità, degli elettori, di cui per fortuna gli artisti e i giornalisti, essendo “impolitici”, possono tranquillamente infischiarsi). La gente invece ha applaudito Grillo e Sabina come Colombo (anche quando ha chiesto consensi per Napolitano), Di Pietro, Flores e gli altri oratori, ma anche i politici delle più varie provenienze venuti a manifestare silenziosamente. Applausi contraddittorii, visto che gli applauditi dicevano cose diverse? Non credo proprio. Era chiaro a tutti che il bersaglio era il regime berlusconiano con le sue leggi canaglia, compresi ovviamente quanti non gli si oppongono.
Come mai allora questa percezione non è emersa, nemmeno nei commenti delle persone più vicine, come per esempio te e Furio? Io temo che viviamo tutti nel Truman Show inaugurato 15 anni fa da Al Tappone, che ci ha imposto paletti (anche mentali) sempre più assurdi e ci ha costretti, senza nemmeno rendercene conto, a rinunciare ogni giorno a un pezzettino della nostra libertà. Per cui oggi troviamo eccessivo, o addirittura intollerabile, ciò che qualche anno fa era normale e lo è tuttora nel resto del mondo libero (dove tra l’altro, a parte lo Zimbabwe, non c’è nulla di simile al governo Al Tappone). In Italia l’elenco delle cose che non si possono dire si allunga di giorno in giorno. Negli Stati Uniti, qualche anno fa, uscì senz’alcuno scandalo un libro di Michael Moore dal titolo “Stupid White Man” (pubblicato in Italia da Mondadori…), tutto dedicato alle non eccelse qualità intellettive del presidente Bush. Da dieci anni l’ex presidente Clinton non riesce a uscire da quella che è stata chiamata la “sala orale”. In Francia, la tv pubblica ha trasmesso un programma satirico in cui un attore, parodiando il film “Pulp Fiction” in “Peuple fiction”, irrompe nello studio del presidente Chirac, lo processa sommariamente per le sue innumerevoli menzogne, e poi lo fredda col mitra. A nessuno è mai venuto in mente di parlare di “antibushismo”, di “anticlintonismo”, di “antichirachismo”, di “insulti alla Casa Bianca” o di “vilipendio all’Eliseo”. Tanto più alta è la poltrona su cui siede il politico, tanto più ampio è il diritto di critica e di satira e anche di attacco personale.
Quelli che son risuonati l’altroieri in piazza Navona non erano “insulti”. Erano critiche. Grillo, insolitamente moderato e perfino affettuoso, ha detto che “a Napolitano gli voglio bene, ma sonnecchia come Morfeo e firma tutto”, compreso il via libera al lodo Alfano che crea una “banda dei quattro” con licenza di delinquere. Ha sostenuto che Pertini, Scalfaro e Ciampi non l’avrebbero mai firmato (sui primi due ha ragione: non su Ciampi, che firmò il lodo Schifani). E ha ricordato che l’altro giorno, mentre Napoli boccheggia sotto la monnezza, il presidente era a Capri a festeggiare il compleanno con la signora Mastella, reduce dagli arresti domiciliari, e Bassolino, rinviato a giudizio per truffa alla regione che egli stesso presiede. Tutti dati di fatto che possono essere variamente commentati: non insulti o vilipendi.
Io, in tre parole tre, ho descritto la vergognosa legge Berlusconi che istituisce un’ ”aggravante razziale” e dunque incostituzionale, punendo - per lo stesso reato - gli immigrati irregolari più severamente degli italiani, e mi sono rammaricato del fatto che il Quirinale l’abbia firmata promulgando il decreto sicurezza. Nessun insulto: critica. Veltroni sostiene che io avrei “insultato” anche lui, e che “non è la prima volta”. Lo invito a rivedersi il mio intervento: nessun insulto, un paio di citazioni appena: per il resto la cronistoria puntuale dell’ennesima resurrezione di Al Tappone dalle sue ceneri grazie a chi - come dice Furio Colombo - “confonde il dialogo con i suoi monologhi”. Sono altri dati di fatto, che possono esser variamente valutati, ma non è né insulto né vilipendio. O forse il Colle ha respinto al mittente qualche legge incostituzionale, e non me ne sono accorto? Sono o non sono libero di pensare e di dire che preferivo Scalfaro e i suoi no al Cavaliere? Oppure la libertà di parola, conquistata al prezzo del sangue dai nostri padri, s’è ridotta a libertà di applauso? Forse qualcuno dimentica che quella c’è anche nelle dittature. E’ la libertà di critica che contraddistingue le democrazie. Se poi a esercitarla su temi quali la laicità, gli infortuni sul lavoro, l’ambiente, la malafinanza, la malapolitica, il precariato, la legalità, la libertà d’informazione sono più i comici che i politici, questa non è certo colpa dei comici.
Poi c’è Sabina. Che ha fatto, di tanto grave, Sabina? Ha usato fino in fondo il privilegio della satira, che le consente di chiamare le cose con il loro nome senza le tartuferie e le ipocrisie del politically correct, del politichese e del giornalese: ha tradotto in italiano, con le parole più appropriate, quel che emerge da decine di cronache di giornale sulle presunte telefonate di una signorina dedita ad antichissime attività con l’attuale premier, che poi l’ha promossa ministra. Enrico Fierro ha raccolto l’altro giorno, sull’Unità, i pissi-pissi-bao-bao con cui i giornali di ogni orientamento, da Repubblica al Corriere, dal Riformatorio financo al Giornale, han raccontato quelle presunte chiamate (con la “m”). Ci voleva un quotidiano argentino, il “Clarin”, per usare il termine che comunemente descrive queste cose in Italia: “pompini”, naturalmente di Stato.
Quello di Sabina è stato un capolavoro di invettiva satirica, urticante e spiazzante come dev’essere un’invettiva satirica, senza mediazioni artistiche né perifrasi. Gli ignorantelli di ritorno che gridano “vergogna” non possono sapere che già nell’antica Atene, Aristofane era solito far interrompere le sue commedie con una “paràbasi”, cioè con un’invettiva del corifeo che avanzava verso il pubblico e parlava a nome del commediografo, dicendo la sua sui problemi della città. Anche questa è satira (a meno che qualcuno non la confonda ancora con le barzellette). Si dirà: ma Sabina ha pure mandato il papa all’inferno. Posso garantire che, diversamente da me, lei all’inferno non crede. Quella era un’incursione artistica in un genere letterario inaugurato, se non ricordo male, da Dante Alighieri. Il quale spedì anticipatamente all’inferno il pontefice di allora, Bonifacio VIII, che non gli piaceva più o meno per le stesse ragioni per cui questo papa non piace a lei e a molti: le continue intromissioni del Vaticano nella politica. Anche Dante era girotondino?
Il fatto è che un vasto e variopinto fronte politico-giornalistico aveva preparato i commenti alla manifestazione ancor prima che iniziasse: demonizzatori, giustizialisti, estremisti, forcaioli, nemici delle istituzioni, e ovviamente alleati occulti del Cavaliere. Qualunque cosa fosse accaduta, avrebbero scritto quel che hanno scritto. Lo sapevamo, e abbiamo deciso di non cedere al ricatto, parlando liberamente a chi era venuto per ascoltarci, non per usarci come pedine dei soliti giochetti. Poi, per fortuna, a ristabilire la verità sono arrivati i commenti schiumanti di Al Tappone e di tutto il centrodestra: tutti inferociti perchè la manifestazione spazza via le tentazioni di un’opposizione più morbida o addirittura di un inciucio sul lodo Alfano (ancora martedì sera, a Primo Piano, due direttori della sinistra “che vince”, Polito e Sansonetti, proclamavano in stereo: “Chi se ne frega del lodo Alfano”). La prova migliore del fatto che la manifestazione contro il Caimano e le sue leggi-canaglia è perfettamente riuscita.. -
AdamClayton.
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Il Lodo Metastasi
Dunque abbiamo assodato che, quando Al Tappone definisce “metastasi” la magistratura, è una battuta. Quando definisce “coglioni” gli elettori che non votano per lui e “spazzatura” 50 mila persone che manifestano contro di lui, è una battuta. Quando il ministro Bossi preannuncia “300 mila fucili” pronti a sparare in Padania, è una battuta. Gli unici che non possono fare battute sono i comici: quelli “insultano”, “vilipendono”, minacciano la democrazia. Invece chi sfigura la Costituzione a propria immagine e somiglianza “dialoga”, anche se parla da solo.
A questo proposito, circolano due singolari leggende metropolitane
1) Il Lodo Alfano, detto anche Dolo Berlusconi, sarebbe legittimo e ragionevole, se solo non fosse approvato con legge ordinaria, ma costituzionale.
2) Il Lodo Alfano risponderebbe ai rilievi avanzati dalla Consulta nella sentenza del gennaio 2004 che bocciava il Lodo Schifani. Ragion per cui, si apprende da una nota del Quirinale, la firma del capo dello Stato sarebbe addirittura “una scelta obbligata” anche in calce a una legge ordinaria.
E’ quel che sostiene, per esempio, l’ex presidente della Corte Alberto Capotosti con un’intervista al Corriere in cui afferma l’esatto contrario di quel che lui stesso disse al Corriere il 26 giugno. Allora parlava di “via impervia”, di “scorciatoia per ottenere l’immunità delle alte cariche”, citava “il precedente della sentenza della Corte costituzionale che nel 2004 ha dichiarato illegittimo il lodo Schifani”, sentenza “di cui sento circolare letture semplificate”, mentre in realtà bocciava l’immunità “con molta eleganza e riferimenti a principi generali”. Ragion per cui, niente immunità per le alte cariche: piuttosto, meglio “reintrodurre l’autorizzazione a procedere per i parlamentari, abolita nel ‘93”.Ora, con una spettacolare capriola, Capotosti afferma che “il lodo Alfano non va manifestamente contro la Costituzione” e può passare addirittura “con legge ordinaria”.
Come possa la Costituzione prevedere all’articolo 3 che “tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge senza distinzioni…di condizione sociale” e una legge ordinaria stabilire che 4 cittadini sono più uguali degli altri solo per la carica che ricoprono, lo sa solo lui. Ma il partito dei pompieri s’è messo in moto, e poco importa se ben 100 costituzionalisti, fra cui gli ex presidenti della Corte Onida, Elia e Zagrebelsky, sostengono che il Lodo è incostituzionale sia perché è una legge ordinaria, sia perché viola - nel merito - alcuni principi fondamentali della Carta.
Potrebbe sembrare una disputa tra diversi orientamenti, ma non è così. Perché non è vero che la sentenza del 2004 dica che si può derogare alla Costituzione con legge ordinaria. Anzi, dice l’esatto contrario: “Alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio di parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili, è regolato da precetti costituzionali”. Non da leggi ordinarie, approvate a colpi di maggioranza semplice (in barba all’art.138, che impone la doppia lettura parlamentare e la maggioranza dei due terzi, pena il referendum confermativo). Dunque non è vero che la sentenza “lavi” preventivamente il nuovo Lodo e imponga al Quirinale di firmarlo. Anche perché, a parte un paio di dettagli, il Lodo Alfano riproduce gli obbrobri - già bocciati dalla Consulta - del Lodo Schifani. L’unica differenza sostanziale è che è rinunciabile e vale per una sola legislatura, mentre l’altro era automatico e illimitato. Ma questo è pure “reiterabile… in caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura”. Se, alla fine di questa, Al Tappone riesce a passare da Palazzo Chigi al Quirinale, porta con sé sul Colle lo scudo spaziale che aveva già a Palazzo Chigi. Che dunque durerebbe 5 anni più 7, rendendolo auto-immune fino al 2020 quando ne avrà 84.
Paradossalmente, se facesse uccidere Napolitano per sloggiarlo anzitempo, non sarebbe punibile e potrebbe prendere il suo posto senza che nessuno possa processarlo. E proprio questo era uno dei motivi della bocciatura del 2004: il Lodo Schifani era “generale”, cioè sospendeva i processi per “tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica”, esattamente come l’Alfano; era “automatico”, cioè scattava “senza alcun filtro, quale che sia l’imputazione e in qualsiasi momento dell’iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei casi concreti”, proprio come l’Alfano. La Corte citava poi l’art. 111, che impone la “ragionevole durata dei processi”, ovviamente incompatibile con una sospensione di 5 anni che può arrivare a 12; e l’art. 3, sull’eguaglianza di tutti i cittadini (compresi quelli che hanno subìto un reato); e l’art. 24 (“Tutti possono agire in giudizio per tutelare i propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”). Ma l’art. 3 finiva (e finisce) in pezzi anche per la bizzarra scelta delle alte cariche da immunizzare: è assurdo, scriveva la Corte nel 2004, “accomunare in unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni e distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princìpi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti”. Il che conferiva alla norma “gravi elementi di intrinseca irragionevolezza”.
Ora il Lodo Alfano sfila il presidente della Consulta, ma resta il frittomisto fra una carica monocratica come quella del capo dello Stato e quelle collegiali come dei presidenti delle Camere e del premier. Queste ultime infatti, come ricordano i 100 costituzionalisti, non godono di speciali immunità in nessun’altra democrazia del mondo. A parte l’Italia prossima ventura: questa è la sola, vera “metastasi”.. -
AdamClayton.
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Gianfranco Funari, uomo libero
l'Unità, 13 luglio 2008
La telefonata arrivava alle ore più impensate, annunciata dalla voce dolce di Morena, la moglie. «Ti passo Gianfranco». «A Trava’, stammatina m’hai proprio fatto godereee…». E giù a ridere su Bellachioma, Uòlter, James Bondi.
La prima volta che si fece vivo ero appena stato al Satyricon di Luttazzi, marzo 2001: «Ora quello rivince e ci fa un culo così. Io ci sono già passato, adesso tocca a te. Ma, quando vuoi, il mio programma per te è sempre aperto».
Per cinque anni casa Funari fu per me l’unica porta aperta in tv, o quasi. Nello studiolo disadorno di Odeon, alle porte di Milano, capii che quell’omino barbuto e tossicchiante, aggrappato al bastone e all’eterna sigaretta, era un grande della tv.
Gli piaceva sfatare i luoghi comuni e le verità ufficiali, cioè le bugie: per smontare quella dell’assoluzione di Andreotti (in realtà prescritto, dunque colpevole di mafia fino al 1980) aveva promosso una vera campagna, diventando amico del procuratore Caselli.
Nella sua vita aveva guadagnato molti soldi, ma non vi era attaccato. E questo era il suo segreto, oltre al fiuto felino che gli faceva annusare in anticipo quel che «sente la gente». Perciò piaceva così tanto agli italiani semplici. Perciò Berlusconi l’aveva voluto con sé e per lo stesso motivo l’aveva poi cacciato per ordine «del Principe», cioè di Craxi. Perciò la cultura ufficiale lo snobbava, anche se per la cultura ha fatto più lui di cento professoroni (o forse proprio per questo).
Ieri è morto un uomo libero.
E la televisione italiana, da oggi, è ancora meno libera.. -
AdamClayton.
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Lodo Mangano
l'Unità, 12 luglio 2008
Ieri La Stampa e l’altroieri il Corriere sono usciti con due editoriali dallo stesso titolo: “Il male minore”. Il primo di Carlo Federico Grosso, il secondo di Vittorio Grevi. I due insigni giuristi sostengono la stessa tesi: piuttosto che sospendere per anni 100 mila processi, meglio il lodo Alfano che sospende solo quelli di Berlusconi. Almeno si potranno celebrare tutti gli altri. La tesi è interessante, anche se non proprio inedita: già Catalano, a “Quelli della notte”, teorizzava che è meglio sposare una donna bella, giovane e ricca che una donna brutta, vecchia e povera. E’ probabile che, pur senza cattedre né lauree, anche Catalano riuscirebbe a sostenere che è meglio sospendere 4 processi che 100 mila. Ma avrebbe qualche difficoltà a scrivere contemporaneamente che il Lodo è incostituzionale, ma il capo dello Stato fa bene a firmarlo, anche se sarebbe suo dovere di garante della Costituzione non firmarlo, però Ciampi firmò il Lodo Schifani ancor più incostituzionale del’Alfano e allora il suo successore deve ripetere l’errore perchè non si interrompe un’emozione.
La teoria del male minore è quella che negli anni 20 ha spalancato le porte al fascismo. Berlusconi ci campa da più di vent’anni. Crea un precedente, fa un gran casino per farlo digerire, giura che è l’ultima volta. Invece è sempre la penultima. Lo erano i decreti salva-Fininvest di Craxi nel 1984-‘85. Lo era la legge Mammi nel ‘90. Lo erano le leggi ad personas per mandare in prescrizione i suoi processi e salvare il suo monopolio abusivo sulle tv, gentilmente offerte dall’Ulivo ai tempi della Bicamerale. Lo erano le leggi ad personam firmate da lui stesso nel 2001-2006. Alla fine qualche buontempone tirò un sospiro di sollievo: “Bene, ora che ha risolto i suoi guai con la giustizia, si può finalmente parlare di politica”. Peccato che lui nel frattempo avesse seguitato a delinquere, procurandosi nuovi processi, oltre a dover salvare Previti per evitare che ritrovasse la memoria: l’Unione gli regalò pure l’indulto Mastella di 3 anni, liberando 40 mila delinquenti per salvarne uno. Così poi il governo crollò grazie a Mastella e l’Unione perse le elezioni, mentre chi l’aveva imposto così ampio riuscì a stravincerle all’insegna della “sicurezza” e della “tolleranza zero”.
Questo grottesco “dialogo” dove parla solo lui, questo ridicolo “pari e patta” dove vince solo lui, questo stravagante “do ut des” dove si vede solo il do e mai il des è proseguito anche durante e dopo la campagna elettorale. Lui aveva il solito problema: sistemare 4 processi e una tv abusiva. E ha cominciato a scassare tutto, come gli insegnò l’”eroe” Vittorio Mangano quand’era a servizio in casa sua ad Arcore. Ogni tanto voleva l’aumento o era un po’ giù di morale, allora andava nell’altra villa, quella di via Rovani a Milano, e la sventrava con una bomba. “Un altro scriverebbe una raccomandata”, disse Al Tappone a Dell’Utri in una celebre telefonata nel 1986, “lui ha messo la bomba”. E Marcello, sempre spiritoso: “Per forza, non sa scrivere!”.
Angelino Alfano, invece, sa scrivere. Soprattutto le leggi che gli dettano il padrone e l’avvocato Ghedini. Si sequestra la Giustizia bloccando 100 mila processi, vietando di intercettare i delinquenti, tagliando i fondi alla Giustizia e alle forze dell’ordine e gli stipendi ai magistrati. Poi arriva Angelino Jolie a chiedere il riscatto: se passa subito il Lodo Mangano, si modifica il blocca-processi. Chissenefrega degli altri 100 mila processi, se saltano subito i 4 di Al Tappone. Ha vinto lui, per l’ennesima volta. Ha vinto il racket, anche se il coro dei servi urlacchia “abbiamo vinto noi, ora riparte il dialogo, il vero problema sono Grillo e Sabina Guzzanti”. Poco importa se, fino a mezz’ora prima, queste facce di tolla avevano giurato il blocca-processi era cosa buona e giusta, ed era fatto per noi, non certo per Lui. Al Tappone aveva scritto al suo riporto personale, Schifani, che il blocca-processi era talmente urgente decisivo per le sorti della Nazione da non ammettere discussioni, e pazienza se casualmente “sarebbe applicabile a uno fra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me per fini di lotta politica”. Ora che il blocca-processi sparisce, è ufficiale che il premier ha mentito al Senato e al suo indegno presidente per ottenere quel che voleva. “Il male minore - diceva Sylos Labini - non esiste: è sempre il preannuncio di un male peggiore”. Appuntamento al prossimo male minore.. -
AdamClayton.
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Premier con scudo spaziale
L'attacco di Berlusconi alla Magistratura si basa sui numeri dei processi e dei magistrati impegnati nella persecuzione giudiziaria. Sono dati precisi, puntuali ma falsi
Quando dà i numeri, il Cavaliere li dà precisi. Falsi, ma precisi. A volte con la virgola. Una tecnica che funziona sempre. Ora ha riattaccato col pianto greco sulla persecuzione giudiziaria, straparlando di "587 ispezioni" e "2.500 processi" che avrebbero impegnato "789 magistrati" (900 per l'on. avvocato Ghedini) e "128 avvocati" che gli sarebbero costati "174 milioni". Molti 'liberali' del tipo Galli della Loggia, Panebianco, Ostellino e Giannino, hanno prontamente abboccato. Impietositi dalla sua grama esistenza, auspicano lo scudo spaziale per proteggerlo dall''anomalia' delle eccessive attenzioni togate. Ma qui l'unica anomalia è un capo-azienda divenuto premier per salvarsi dai processi. E racconta bugie per rivoltare la frittata.
In Italia esistono 9 mila magistrati (compresi quelli civili): l'idea che uno su 10 si sia occupato di lui è ridicola. Saranno a dir tanto 2-300. Troppi? No, se si pensa che Berlusconi, i suoi cari (fornitori abituali dei tribunali come il fratello Paolo, Previti e Dell'Utri) e le sue aziende (comprese le 64 off-shore fuori bilancio) hanno subìto una trentina d'indagini tra Milano, Brescia, Torino, Firenze, Napoli, Roma, Palermo, Caltanissetta.
Lui è stato rinviato a giudizio 12 volte in Italia e una in Spagna. E ogni processo impegna almeno un pm, un gip, un gup, 3 giudici di tribunale, un pg e 3 giudici d'appello, un pg e 5 giudici di Cassazione: 16 toghe in tutto. Se poi l'imputato ricusa il giudice, ne mobilita ogni volta altri 10 (un pg e 3 giudici d'appello, un pg e 5 giudici di Cassazione): e lui, con i suoi coimputati, l'ha fatto 15 volte. Senza contare mezza dozzina di istanze di rimessione a Brescia per legittimo sospetto (esaminate ogni volta da un pg e 5 giudici di Cassazione).
E i continui ricorsi contro ogni sequestro. Difficile lamentarsi per le troppe toghe che perdono tempo appresso a lui.
Saranno troppe le indagini? La stessa tesi sostenne, per la Fiat, Cesare Romiti imputato a Torino nel '95: "Abbiamo ricevuto 345 visite della Finanza. Se lo sa Berlusconi si offende, lui vuol essere sempre il primo, ma è arrivato solo a 100-112...". In realtà per la Fininvest, come per gli altri grandi gruppi, le indagini non sono né poche né tante: sono quelle nate dalle notizie di reato giunte ai pm, quasi sempre per caso. La denuncia di un sottufficiale sulle tangenti alla Finanza. Le rivelazioni di Stefania Ariosto sulle mazzette di Previti ai giudici. Le false fatture confessate dai manager di Publitalia. Le tracce, sui conti esteri di Craxi, di 21 miliardi targati Fininvest. La confessione del presidente del Torino Borsano sui fondi neri del Milan per il calciatore Lentini. La lettera di David Mills al suo commercialista sulle false testimonianze per 600 mila dollari.
Le telefonate Saccà-Berlusconi. E così via. In effetti c'è qualcuno che potrebbe lamentarsi. È Di Pietro: 28 indagini a Brescia (alcune su denuncia del Cavaliere) e 8 richieste di rinvio a giudizio, sempre prosciolto perché innocente. Una vera persecuzione.. -
AdamClayton.
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I maiali sono più uguali degli altri
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AdamClayton.
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Lui lo sa
Ora d'Aria
l'Unità, 19 luglio 2008
Non occorreva Nostradamus per prevedere che Al Tappone non si sarebbe fermato neppure dopo il Lodo Alfano. Bastava un pizzico di memoria storica. Chi, da 15 anni, cede a ogni sua estorsione, pagando pizzi e riscatti in nome del «male minore», convinto che «è l’ultima volta», deve poi amaramente constatare - anche se non lo ammette mai - che l’ultima volta è sempre la penultima e che ogni male minore prelude sempre a un male peggiore.
Conquistata l’impunità per sé e per le altre tre cariche dello Stato, Al Tappone ha subito annunciato le prossime mosse: immunità parlamentare per tutti (poi provvisoriamente ritrattata per tener buona la Lega), fine dell’azione penale obbligatoria (le priorità le decide il Parlamento, cioè lui), pm al guinzaglio dell’esecutivo come ai tempi del fascismo, «riforma del Csm» per renderlo ancor più politicizzato (aumento dei membri laici e silenziatore sui pareri, ora dovuti per legge, per ogni riforma che investa la Giustizia).
A questo punto chi non ha occhi e orecchi foderati di prosciutto dovrebbe porsi una domanda semplice semplice: ma davvero i quattro processi attualmente aperti a carico del Cainano giustificano questo suo scatenamento ossessivo, disperato e scalmanato? Il processo Mills andrà a sentenza in ottobre, quando il Lodo sarà già legge: il verdetto potrà riguardare solo l’avvocato presunto corrotto, e non il premier presunto corruttore, che verrà «stralciato» e tenuto in attesa che la Consulta si pronunci sulla costituzionalità del Lodo. Ma, appena il collegio presieduto da Nicoletta Gandus emetterà la sentenza su Mills, diventerà automaticamente incompatibile a giudicare poi Berlusconi. Se mai il processo ripartirà, per la bocciatura del Lodo o per l’uscita del Cainano da Palazzo Chigi (con perdita dell’immunità), dovrà occuparsene un nuovo collegio. E dovrà ricominciare daccapo. Così la prescrizione, già ora agli sgoccioli, si mangerà il processo garantendo all’illustre imputato la consueta impunità.
Lo stesso accadrà col processo sui diritti Mediaset, dove il collegio presieduto dal giudice D’Avossa potrà giudicare i coimputati del Cavaliere, ma non lui, che ne uscirà grazie al Lodo per tornare sotto processo solo fra qualche anno, con prescrizione assicurata. Gli altri due procedimenti, nati dalle sue telefonate con Saccà, sono ancora agli albori: l’uno, per corruzione del direttore di Raifiction, è in udienza preliminare tra Napoli e Roma; l’altro, per la compravendita di senatori dell’Unione, è in indagine preliminare a Roma. Se, come pare, tutto dovesse approdare nella Capitale, i rischi per Al Tappone sarebbero davvero minimi, anche senza immunità: non si ricorda, a memoria d’uomo, un potente uscito con le ossa rotte dal tribunale capitolino.
Di che si preoccupa il Cainano? Che senso ha questo suo tuonare ogni santo giorno, da mane a sera, contro la magistratura, a costo di precipitare nei sondaggi, di logorare i rapporti con la Lega e di costringere un Pd così ansioso di «dialogo» a far la faccia feroce per tener buoni gli eventuali elettori? Delle due l’una: o il nostro ometto è uscito definitivamente di testa (l’altro giorno, per dire, ha paragonato Mara Carfagna a Santa Maria Goretti e se stesso al Brunello di Montalcino); oppure sa qualcosa che noi non sappiamo. La prima è altamente improbabile: la giustizia, per lui e la banda, è un tema troppo cruciale e presidiato da consiglieri, consigliori e azzeccagarbugli per esser lasciato alle mattane uterine di un misirizzi fuori controllo. La seconda è altamente probabile, almeno per chi conservi un pizzico di memoria storica. In questi 15 anni l’abbiamo visto più volte ululare alla luna. Sul momento, nessuno capiva il perché e lo credeva impazzito. Poi regolarmente la cronaca giudiziaria si incaricava di fornire una spiegazione plausibile. Una volta le rogatorie dall’estero, un’altra le rivelazioni dell’Ariosto, un’altra ancora le confessioni dei pentiti di mafia. Anche stavolta ci dev’essere qualcosa di grosso che bolle in pentola. Qualcosa che non coinvolga solo lui - ormai immune - ma anche qualcuno dei suoi complici sparsi per il mondo. Qualcosa che rende urgenti, anzi obbligate due controriforme sommamente impopolari: basta intercettazioni, basta inchieste sui politici e i loro amici. Noi non sappiamo ancora chi, cosa, perché. Lui sì.. -
AdamClayton.
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Ora d'aria
l'Unità, 18 luglio 2008
Ogni anno, nella ricorrenza della strage di via d’Amelio, si trova il modo di commemorare degnamente Borsellino e Falcone. Quattro anni fa l’estromissione dal pool antimafia palermitano dei loro amici e allievi prediletti. Due anni fa il reintegro in Cassazione del loro nemico giurato Corrado Carnevale. Ma quest’anno, va detto, il Csm si è superato. L’altro giorno è riuscito a nominare procuratore capo di Marsala il celebre Alberto Di Pisa, altro avversario irriducibile di Falcone, preferendolo ad Alfredo Morvillo, che di Falcone è pure il cognato e che ha dovuto lasciare l’incarico di procuratore aggiunto a Palermo per la scriteriata controriforma Castelli-Mastella. Di Pisa è prevalso al plenum per un solo voto perchè più “anziano” di Morvillo. Lo stesso motivo che nel 1989 indusse il Csm a nominare Antonino Meli a capo dell’ufficio istruzione di Palermo contro il più esperto ma più giovane Falcone. Lo stesso motivo che nel 1988 aveva indotto Leonardo Sciascia ad attaccare sciaguratamente Borsellino sul Corriere come ”professionista dell’antimafia”, per essere stato preferito a un collega più vecchio proprio come procuratore di Marsala. Ora, vent’anni dopo, l’anzianità torna a prevalere sul merito grazie ai laici del centrodestra, ai togati di MI e di Unicost e al soccorso rosso della laica Ds Tinelli (la quale ripete lo schema del compagno Curzi che, nel Cda Rai, aiuta il Pdl a salvare Saccà dal licenziamento).
Chi è Di Pisa? L’ex pm del pool Antimafia di Palermo che Falcone considerava l’autore delle lettere anonime del “corvo” nei mesi dei veleni a palazzo di giustizia. Lettere che accusavano Falcone e De Gennaro di manipolare i pentiti e di aver addirittura consentito a Totuccio Contorno di tornare a Palermo per assassinare i nemici della sua famiglia. Per quelle lettere, Di Pisa fu processato a Caltanissetta: condannato in primo grado perché un’impronta rinvenuta sulle lettere del corvo corrispondeva in molti punti con la sua, prelevata di nascosto dall’alto commissario Domenico Sica su una tazzina di caffè. In appello fu poi assolto perché quella prova fu giudicata inutilizzabile.
Dunque, per la legge, Di Pisa è innocente. Ma, anche dimenticando quella vicenda, restano e pesano come macigni le terribili accuse lanciate da Di Pisa a Falcone nell’audizione al Csm il 21 settembre 1989, quando fu chiamato a rispondere della sua fama di “anonimista” impenitente raccontata da alcuni colleghi (e subito dopo fu trasferito d'ufficio dal Csm per incompatibilità ambientale).
Quel giorno Di Pisa dichiarò quanto segue: “Disapprovo la gestione dei pentiti e i metodi d’indagine inopinatamente adottati nell’ambiente giudiziario palermitano (…), una certa concezione di intendere il ruolo del giudice e lo stravolgimento dei ruoli e delle competenze istituzionali (…), l’interferenza del giudice con la funzione dell’organo di polizia giudiziaria (…). Falcone prese contatti e impegni con le autorità americane a titolo non si sa bene come, concernenti provvedimenti di competenza della corte d’appello (....) Il GI (Falcone) si trasforma anche in ministro di Grazia e giustizia (…). Emerge la figura del giudice ‘planetario’ che si occupa di tutto e di tutti, invade le competenze, ascolta i pentiti e non trasmette gli atti alla Procura (…), indaga al di là di quello che è il processo (…). Una gestione dei pentiti familiare e gravemente scorretta, per non usare aggettivi più pesanti (…). Falcone portava i cannoli a Buscetta e Contorno (…), un rapporto confidenziale, una logica distorta tra inquirente e mafioso (…). Falcone fece pervenire tramite De Gennaro a Contorno e Buscetta i suoi complimenti per il modo sicuro in cui si erano comportati (al maxiprocesso, ndr). Voleva un ruolo passivo per il pm che assisteva agli interrogatori (…). La gestione dei pentiti e il contatto con gli stessi è stato sempre monopolio esclusivo del collega Falcone e di De Gennaro (…). Io avevo manifestato una differenziazione tra una posizione garantista e quella sostanzialista (di Falcone, ndr). Per carità, non voglio insinuare nulla, ma in tutti gli interrogatori dei pentiti, di Buscetta, di Contorno, di Calderone, non vi sono contestazioni: tutto un discorso che fila, mai un rilievo, mai una contraddizione fatta rivelare dall’imputato”.
E ancora: Di Pisa accusò Falcone di condotte “di inaudita gravità” e di “stravolgere le regole e le competenze istituzionali”, nonché di “intrecci e alleanze con i giornalisti”. Accuse che toccheranno, uguali identiche, ai successori di Falcone, cioè a Caselli e ai suoi uomini, ai quali verrà addirittura rinfacciata “l’eredità di Falcone”, divenuto - dopo morto ammazzato - un cadavere da gettare addosso a chi aveva raccolto la sua eredità. Ora si fa un altro passo indietro: si premia chi quelle accuse lanciava non a Caselli e agli altri pm antimafia che hanno avuto il torto di restare vivi, ma all’eroico Falcone. Del resto, oggi, il nuovo eroe è Vittorio Mangano.. -
AdamClayton.
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Lezione di legalità dall'Albania
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AdamClayton.
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Immunodelinquenza acquisita
Ora d'aria
l'Unità, 17 luglio 2008
Mentre Robin Tremood paventa “un nuovo 1929”, Al Tappone teme un nuovo 1992. Gli son bastate tre paroline - socialista, tangenti, manette - per ripiombarlo nel più cupo sconforto. Tant’è che ha ricominciato a delirare di “riforma della giustizia”, cioè del ritorno all’immunità parlamentare. Intanto l’apposito Angelino Jolie gli ha regalato il patteggiamento gratis, con una norma del pacchetto sicurezza che consente agli imputati di patteggiare anche durante il dibattimento, anche un minuto prima della sentenza.
Così lo Stato non ci guadagna nulla, anzi perde tempo e denaro a fare i processi, e alla fine il delinquente incassa lo sconto di un terzo della pena e può cumularlo col bonus di 3 anni dell’indulto, se ha avuto l’accortezza di delinquere prima del maggio 2006. Come per esempio, se sarà ritenuto colpevole, il fido avvocato Mills. Se fosse italiano, sarebbe già deputato. Essendo inglese, deve accontentarsi del patteggiamento omaggio: potrà comodamente concordare una pena simbolica, evitare il carcere e soprattutto una sentenza motivata che spieghi chi gli ha dato i soldi (quello che lui, nella famosa lettera, chiama "Mr.B.", e s’è appena messo al sicuro col lodo Alfano).
Questo indulto-bis, che eviterà la galera ai condannati fino a 9 anni, sempre all’insegna della sicurezza, è stato denunciato da Di Pietro, mentre qualche buontempone del Pd parlava addirittura di dire qualche sì al pacchetto, anzi al pacco. E’ il caso del sagace Pierluigi Mantini, che all’indomani dell’arresto di Del Turco s’è precipitato a rendergli visita nel carcere di Sulmona a braccetto col senatore Pera. I due apostoli del garantismo sono specializzati nel precetto evangelico “visitare i carcerati”, ma solo se c’è dentro qualche membro della Casta. Mai che gli scappi, per dire, una visitina a un tossico. Del Turco è in isolamento per tre giorni, dunque non può ricevere né parenti né avvocati. Ma, pover’uomo, gli tocca sorbirsi Mantini e poi Pera. I quali, per aggirare l’isolamento, si sono inventati su due piedi un’”ispezione al carcere di Sulmona”: un’irrefrenabile esigenza nata, guardacaso, proprio con l’arresto del governatore. “La presenza del presidente Del Turco - ha spiegato Mantini, restando serio - è stata un motivo in più per procedere all’ispezione di un carcere che tengo particolarmente monitorato”. Ma certo, come no.
En passant, dopo aver ragguagliato la Nazione sulla colazione del governatore, l’onorevole margherito domanda “se vi siano concreti pericoli di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato”. Ottima domanda, se non fosse che non spetta ai deputati rispondere, ma al gip (che ha già risposto di sì), poi al Riesame e alla Cassazione. Altri, come Il Giornale e l’acuto Capezzone, inorridiscono perché Del Turco “è trattato come un boss mafioso”. Ma la legge prevede l’isolamento non solo per i boss, bensì per chiunque possa, comunicando con l’esterno, influenzare i testimoni (e Del Turco aveva già tentato di inquinare le prove contattando addirittura il Procuratore generale d’Abruzzo). Con buona pace di Bobo Craxi, per il quale “la custodia cautelare e l’isolamento sono misure erogate ai criminali, non agli eletti dal popolo”. Ma l’una cosa non esclude l’altra, come lui dovrebbe sapere. Quello con le mèches racconta sul Giornale che nel ‘93 finì in carcere l’intera giunta abruzzese, dopodichè furono “tutti assolti con formula piena”. Storie: ci volle la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio non patrimoniale per salvare gli assessori, mentre il presidente di allora, Rocco Salini, fu condannato in Cassazione per falso (s’erano dimenticati di depenalizzare anche quello), dunque promosso deputato da FI, prima di andare ad arricchire la collezione di Mastella.
Pure Al Tappone millanta un’assoluzione mai avvenuta: la sua a Tempio Pausania dall’accusa di abusivismo edilizio a villa La Certosa. Forse non sa che in quel processo non era imputato lui, ma il suo amministratore Giuseppe Spinelli; e che il processo è finito nel nulla non perché si fondasse su un “teorema”, ma grazie anche a vari condoni, almeno uno varato dal suo governo. Resta da capire perché, con tutti i processi che ha, se ne inventi di inesistenti. Forse sono i suoi avvocati che abbondano un po’ sul numero, e soprattutto sulle parcelle: “Eh, Cavaliere, ci sarebbe poi quel processo a Vipiteno per furto di bestiame, una storia bruttina, ma pagando il giusto sistemiamo tutto noi…”. O forse i processi se li aggiunge lui, per fare bella figura.. -
AdamClayton.
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C’è un giudice, a Strasburgo
l'Unità, 23 luglio 2008
I politici devono rassegnarsi alle critiche, anche aspre. E devono smetterla di considerarle “insulti” o “attacchi” e di denunciare chi le muove. Mentre in Italia la Casta si blinda con scudi, immunità e bavagli alla stampa, da Strasburgo arriva un’altra fondamentale sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in difesa del quarto potere «cane da guardia della democrazia». La sentenza condanna lo Stato italiano a risarcire il politologo Claudio Riolo, condannato a versare 80 milioni di lire (140 con gli interessi) al presidente forzista della provincia di Palermo, Francesco Musotto, per averlo criticato.
Nel novembre 1994 Riolo, che insegna all’Università di Palermo, pubblica su Narcomafie diretto da don Luigi Ciotti l’articolo «Mafia e diritto: la Provincia contro se stessa nel processo Falcone. Lo strano caso dell’avvocato Musotto e di Mister Hyde». Riolo mette il dito nel conflitto d’interessi di Musotto, che in veste di avvocato difende un mafioso imputato per la strage di Capaci e in veste di presidente della Provincia è parte civile nello stesso processo. Musotto denuncia Riolo (non la rivista) in sede civile, chiedendo 500 milioni di danno patrimoniale e 200 di danno morale. Narcomafie ripubblica l’articolo con le firme di altre persone che si autodenunciano con lui. Tra questi, Castellina, Cazzola, Forgione, Lumia, Manconi, Alfredo Galasso, Giuseppina La Torre, Santino, Vendola, Folena, Di Lello. Musotto non li denuncia. Anche perché intanto viene arrestato col fratello con l’accusa di aver ospitato nella sua villa al mare alcuni boss mafiosi latitanti. Sarà assolto per insufficienza di prove: non è provato che fosse al corrente che i capimafia soggiornavano in casa sua, mentre è provato che lo sapesse suo fratello, condannato definitivamente per concorso esterno. In compenso, nel 2000, il Tribunale civile di Palermo condanna Riolo: 80 milioni di danni morali al presidente della Provincia, rieletto trionfalmente alla presidenza della provincia dopo la disavventura giudiziaria. Condanna confermata in appello e in Cassazione nel 2007. Il professore si vede pignorare il quinto dello stipendio e della liquidazione. Ma ricorre a Strasburgo tramite l’avvocato Alessandra Ballerini. E l’altro giorno ha ottenuto ragione dalla Corte europea: la sua condanna viola l’articolo 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo, lo Stato italiano deve risarcirlo con 60 mila euro più 12 mila di spese legali.
La Corte, presieduta dalla giudice belga Francoise Tulkens, spiega che «l’articolo incriminato era fondato sulla situazione in cui si trovava Musotto all’epoca dei fatti»: il suo «doppio ruolo» di presidente della Provincia e di difensore di un mafioso «poteva dar luogo a dubbi sull’opportunità delle scelte di un alto rappresentante dell’amministrazione su un processo concernente fatti di estrema gravità» (la strage di Capaci). L’articolo «s’inseriva in un dibattito di pubblico interesse generale»: Musotto è «uomo politico in un posto chiave nell’amministrazione», dunque «deve attendersi che i suoi atti siano sottoposti a una scrupolosa verifica della stampa». «Sapeva o avrebbe dovuto sapere che, continuando a difendere un accusato di mafia… si esponeva a severe critiche». Riolo non ha scritto che Musotto abbia «commesso reati» o «protetto gli interessi della mafia»: ha solo osservato che «un eletto locale potrebbe essere influenzato, almeno in parte, dagli interessi di cui sono portatori i suoi elettori». Un’«opinione che non travalica il limite della libertà di espressione in una società democratica». Riolo l’ha pure sbeffeggiato con «espressioni ironiche». Ma «la libertà giornalistica può contemplare il ricorso a una certa dose di provocazione», che non va confusa con «insulti e offese gratuite» se «si attiene alla situazione esaminata» e se «nessuno contesta la veridicità delle principali informazioni fattuali nell’articolo». Nessun «attacco personale gratuito», allora, ma doverosa critica. Guai a sanzionare le critiche con multe salate che «possono dissuadere» giornalisti e critici a «continuare a informare il pubblico su temi di interesse generale».
Insomma la condanna inflitta a Riolo è «un’ingerenza sproporzionata nel diritto di libertà di espressione» e va annullata col risarcimento. Mentre in Italia con la confusione fra critiche e «insulti», si tenta di soffocare la libera stampa, dall’Europa arriva una boccata d’ossigeno. C’è un giudice, almeno a Strasburgo.. -
AdamClayton.
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Lettera al presidente del Senato
l'Unità, 26 luglio 2008
Gentile Presidente del Senato, avv. sen. Renato Schifani, chi Le scrive è un modesto giornalista che ha avuto la ventura di occuparsi talvolta di Lei per motivi professionali. L’ultima - forse lo ricorderà - fu nel mese di maggio, quando Lei ascese alla seconda carica dello Stato e io pubblicai una sua breve biografia sull’Unità e nel libro “Se li conosci li eviti” (scritto con Peter Gomez) che poi presentai su Rai3 a “Che tempo che fa”. Anzitutto mi consenta di congratularmi con Lei per la Sua recentissima invulnerabilità penale, in virtù del Lodo Alfano, figlio legittimo del Lodo Schifani già dichiarato incostituzionale dalla Consulta nel 2004 e prontamente replicato in questa legislatura, anche grazie alla fulminante solerzia con cui Lei l’ha messo all’ordine del giorno di Palazzo Madama. E’ davvero consolante, per un cittadino comune, apprendere che da un paio di giorni l’articolo 3 della Costituzione è sospeso con legge ordinaria approvata in 25 giorni, e che dall’altroieri esistono quattro cittadini più uguali degli altri dinanzi alla legge, come i maiali della “Fattoria degli animali” di George Orwell. Il fatto poi che Lei faccia parte del quartetto degli auto-immuni è per tutti noi motivo di ulteriore soddisfazione.
Si dà il caso, però, che Lei mi abbia recentemente fatto recapitare in busta verde, da ben tre avvocati (uno dei quali pare sia un Suo socio di studio), un atto di citazione presso il Tribunale civile di Torino affinchè io vi compaia per essere condannato a risarcirLa dei presunti danni, patrimoniali e non, da Lei patiti a causa del mio articolo sull’Unità e della mia partecipazione al programma di Fabio Fazio. Danni che Lei ha voluto gentilmente quantificare in appena 1,3 milioni di euro. A carico mio, s’intende. Tutto ruota, lo ricorderà, intorno al fatto che avevo osato ricordare come Lei, alla fine degli anni 70, fosse socio nella Sicula Broker di due personaggi poi condannati e arrestati per mafia, Benny D’Agostino e Nino Mandalà; e che negli anni 90 Lei abbia prestato una consulenza in materia urbanistica per il Comune di Villabate, poi sciolto due volte per mafia in quanto ritenuto nelle mani dello stesso boss Mandalà. Circostanze che Lei non ha potuto negare neppure nel suo fantasioso e spiritoso atto di citazione (ho molto apprezzato i passaggi nei quali Lei fa rientrare quei fatti nell’ambito dei “commenti sulla vita privata delle persone”; e mi rimprovera di non aver rammentato come Lei sia stato socio non solo di persone poi risultate mafiose, ma anche di altri “noti imprenditori mai coinvolti in episodi giudiziari”, e come Lei abbia prestato consulenze non solo per comuni poi sciolti per mafia, ma anche per altri enti locali mai sciolti per mafia).
Ora, sul merito della controversia, decideranno i giudici. Ma non Le sfuggirà la sproporzione delle forze in campo, sulla bilancia della Giustizia, fra la seconda carica dello Stato e un umile cronista: i giudici, già abbondantemente vilipesi e intimiditi negli ultimi anni da Lei e dai Suoi sodali, sapranno che dar torto a Lei significa dar torto al secondo politico più importante del Paese, mentre dar torto a me è davvero poca cosa. E’ questo oggettivo squilibro che, in tempi e in paesi normali, consiglia a chi ricopre importanti cariche pubbliche di spogliarsi delle proprie liti private, per dedicarsi in esclusiva agli interessi di tutti i cittadini. Lei invece non solo non si è spogliato delle Sue liti private, ma ne ha addirittura ingaggiata una nuova (con me) dopo aver assunto la presidenza del Senato. Ora però quello squilibrio diventa davvero abissale in conseguenza della Sua sopraggiunta invulnerabilità. In pratica, se io volessi querelarLa per le infamanti accuse che Lei mi muove nel Suo atto di citazione, non avrei alcuna speranza di ottenere giustizia in tempi ragionevoli, perché il Lodo Alfano La mette al riparo da qualunque conseguenza penale delle Sue parole e azioni, imponendo la sospensione degli eventuali processi a Suo carico. Lei può dire e fare ciò che vuole, e io no. Riconoscerà che, dal mio punto di vista, la situazione è quantomai inquietante.
Ma c’è di più e di peggio. L’anno scorso l’ex presidente del consiglio comunale di Villabate, Francesco Campanella, indagato per mafia a causa dei suoi rapporti con la cosca Mandalà e con Bernardo Provenzano, ha raccontato ai giudici antimafia di Palermo che il nuovo piano regolatore di Villabate era stato addirittura “concordato” da lei e dal senatore La Loggia con il solito Mandalà. Lei e La Loggia annunciaste subito querela. E da allora i magistrati antimafia stanno verificando se Campanella si sia inventato tutto o magari dica la verità. Io Le auguro e mi auguro, visto che Lei ora rappresenta l’Italia ai massimi livelli, che prevalga la prima ipotesi. Ma, nella malaugurata evenienza che prevalesse la seconda, il Lodo Alfano impedirebbe alla magistratura di processarLa, almeno per i prossimi cinque anni, finchè terminerà la legislatura e, con essa, svanirà il Suo preziosissimo scudo spaziale. Converrà con me, Signor Presidente, che nella causa civile che Lei mi ha intentato la conclusione di quelle indagini sarebbe comunque decisiva per valutare la mia posizione: sia che le accuse di Campanella trovino conferma, sia che trovino smentita, sarebbe difficile sostenere che io non abbia esercitato il mio diritto-dovere di cronaca, segnalando ai cittadini una vicenda di così bruciante attualità e interesse pubblico. Detta in altri termini: non vorrei che la causa civile da Lei intentatami si concludesse prima delle indagini sul caso Campanella-Villabate, magari in conseguenza del blocco di quel procedimento per via del Lodo Alfano. Essere condannato a versarle 1 milione o anche 1 euro, e poi scoprire a cose fatte di aver avuto ragione, sarebbe per me estremamente seccante.
L’altro giorno, con nobile gesto, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha rinunciato preventivamente al Lodo, dando il via libera al processo che lo vede imputato per diffamazione ai danni del pm Henry John Woodcock. Mi rivolgo dunque a Lei, e alla prima carica dello Stato che quel Lodo ha così rapidamente promulgato, affinchè rassicuriate noi cittadini su un punto fondamentale: o ritirate le vostre denunce penali e civili finchè sarete protetti dallo scudo spaziale, oppure rinunciate preventivamente al Lodo in ogni eventuale processo che potesse eventualmente influenzare, direttamente o indirettamente, l’esito di quelle cause. In attesa di un Suo cortese riscontro, porgo i miei più deferenti saluti.. -
AdamClayton.
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Besame, Chitarrino
l'Unità, 30 luglio 2008
Quando Il Giornale era una cosa seria, cioè quando lo dirigeva Montanelli, vi era severamente vietato criticare la Rai per evitare che qualcuno potesse pensare che la critica era un favore all’editore Berlusconi, proprietario della Fininvest. Me lo raccontò Giovanni Arpino. Poi, nei primi anni 90, perché fosse ancor più chiaro chi comandava al Giornale tra lui e l’editore, il vecchio Indro ingaggiò come critico televisivo Sergio Saviane, che non perdeva occasione di spernacchiare il Berlusca e il suo mondo. Sono trascorsi appena 15 anni, ma non sono stati vani: siamo nell’èra dei servi felici, abbiamo abolito il pudore e perduto il senso della vergogna. Basta leggere, sul fu Giornale, le cronache al seguito del Cavalier Padrone. Passa il lodo Alfano, titolo a tutta prima pagina: “Sia lodo, fine della guerra”. Segue commento non firmato, dunque attribuibile al direttore, Mario Appelius Giordano: “La bella estate di Silvio”. Fior da fiore: “Adesso non ci sono più nuvole. Le foto di Villa Certosa immortalano un momento di serenità privata: per il compleanno della moglie Veronica, Berlusconi ha radunato tutta la famiglia in Sardegna. Ci sono i figli, i nipotini, i giochi, le gite in barca, piccoli scampoli di ordinario lusso e straordinaria felicità… Quest’immagine di serenità privata diventa segno e simbolo della serenità politica… Napoli è stata ripulita dai rifiuti… la Finanziaria sta per essere approvata… l’immunità per le alte cariche, come ciliegina sulla torta (di compleanno) mette finalmente il governo al riparo dall’assalto giustizialista… Ronaldinho al Milan? Toh, è arrivato pure quello. E allora, mano nella mano con Veronica, non resta che gustarsi un po’ di relax come si conviene. E’ la bella estate di Silvio, non c’è niente da fare… La sinistra allo sbando deve rassegnarsi: nel centrodestra non è più tempo di Casini (battuta, ndr). Questo è il tempo della fedeltà e della serenità, come testimoniano le foto con Veronica e la pace con Bossi…”.
Era dai tempi dei dispacci della Stefani sulle virili vacanze del Duce e donna Rachele a Rocca delle Caminate, che non si leggeva niente del genere. Un’intera pagina fotografica gentilmente offerta da “Chi” (altro house organ della ditta) ritrae il ducetto “rilassato e innamorato” con le sue “tinte turchesi” nella “nuova Camp David” di Villa Certosa, là dove solo un anno fa pascolavano sulle sue ginocchia cinque prosperose ragazze, subito trasformate in altrettante “attiviste di Forza Italia” impegnate in un simposio di alta politica. Quest’anno invece la Veronica ha piantato le tende alle costole dell’esuberante consorte e non lo molla un istante (le ampie maniche delle rispettive camicie nascondono le manette ai polsi dei due coniugi). Nemmeno quando lui tenta la fuga a Portofino, in una delle tante ville. Anche qui, stuolo di fotografi al seguito e cronista da riporto del Giornale: un tale Vincenzo La Manna, che dev’essere giovanissimo, ma ha già capito come gira il mondo. Il suo paginone di lunedì sul Giornale, dal sobrio titolo “Love in Portofino”, è un piccolo capolavoro: “In camicia blu scuro e pantaloni abbinati, Berlusconi si presenta poco dopo le 9 di sera, sorridente, al centro della splendida località marina. E con la mano sempre intrecciata a quella della moglie, raggiunge il porticciolo. Per dirigersi, guardato a vista dalle guardie del corpo in tenuta estiva (ecco: niente plaid, cuffie di lana, pelli di foca o cose del genere, ndr) verso lo yacht ‘Besame’ di Marina”. Da non confondere con lo yacht “Suegno”, che invece è di Piersilvio detto Dudi. Segue cena in uno “storico ristorante”, allietato dalle note di “Carlo, detto il Chitarrino”: un Apicella locale. “Alla famiglia Berlusconi si aggregano il giornalista Guido Bagatta e la compagna”, per elevare ulteriormente il livello della conversazione. “Moscardini fritti e spiedini alla griglia, un tocco d’insalata russa”, e poi “branzino bollito” in onore di Bondi. Infine “orata al forno con olive nere e sorbetto shakerato alle fragole”. Poi “via in discoteca per alcune ore”.
L’indomani, sempre pedinato dal solerte La Manna, il Cainano “riceve in giardino la visita di Marina e Piersilvio, che lasciano per un po’ i loro yacht attraccati in rada”. Si spera, non incustoditi. Sarà così, minaccia il cronista, per tutta l’estate “e poco importa se il settimanale ‘Chi’ riesce a immortalare i suoi momenti di svago e intimità”. Ecco: Lui, sempre così ritroso, non ama finire sui giornali, ma quei comunisti molesti di “Chi” lo immortalano lo stesso. E Lui, da vero liberale, continua a stipendiarli.
Torna in mente quel che scrisse Montanelli, sulla Voce, il 26 novembre ’94: “Dobbiamo prepararci a presentare le nostre scuse a Emilio Fede. L’abbiamo sempre dipinto come un leccapiedi, anzi come l’archetipo di questa giullaresca fauna, con l’aggravante del gaudio. Spesso i leccapiedi, dopo aver leccato, e quando il padrone non li vede, fanno la faccia schifata e diventano malmostosi. Fede, no. Assolta la bisogna, ne sorride e se ne estasia, da oco giulivo. Ma temo che di qui a un po’ dovremo ricrederci sul suo conto, rimpiangere i suoi interventi e additarli a modello di obiettività e di moderazione… Oggi, per instaurare un regime, non c’è più bisogno di una marcia su Roma né di un incendio del Reichstag, né di un golpe sul palazzo d’Inverno. Bastano i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa: e fra di essi, sovrana e irresistibile, la televisione. (...) Il risultato è scontato: il sudario di conformismo e di menzogne che, senza bisogno di ricorso a leggi speciali, calerà su questo Paese riducendolo sempre più a una telenovela di borgatari e avviandolo a un risveglio in cui siamo ben contenti di sapere che non faremo in tempo a trovarci coinvolti”..