il nostro comandante per il secolo a venire

attenzione: topic marxista

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  1. whipping boy
     
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    28/01/2006

    CHAVEZ AL FORUM SOCIALE MONDIALE: "COSTRUIRE IL NUOVO SOCIALISMO"

    CARACAS
    Il 21/o e' un secolo fondamentale, perche' dovra' dirci se l'umanita' potra' salvarsi o se ci avvieremo verso una autodistruzione. Lo ha sostenuto ieri sera a Caracas il presidente Hugo Chavez, per il quale l'unica alternativa e' l'azione di un forte movimento popolare che costruisca ''un nuovo socialismo''.
    Rivolgendosi per poco piu' di due ore, un tempo limitato per le sue abitudini oratorie, a migliaia di partecipanti al 6/o Forum sociale mondiale (Fsm) riuniti nel Palazzetto dello sport Poliedro, Chavez ha avviato la sua riflessione rievocando i Libertadores latinoamericano che hanno cercato di costruire una unita' sudamericana nel 19/o secolo, come Simon Bolivar o Jose' de San Martin.
    ''Loro - ha proseguito - portavano avanti la loro lotta ma sapevano gia' che lavoravano per le generazioni future''.
    ''Cosi' e' stato anche - ha aggiunto - quando pensatori come Carlo Marx hanno lanciato slogan del tipo 'socialismo o morte', ripresi poi da Rosa Luxemburg, Fidel Castro o Che Guevara''.
    Il capo dello stato venezuelano si e' detto quindi convinto che ''negli ultimi cinque anni sono successe molte cose nel sud del mondo ed in particolare in America latina'' e che ''i termini si sono ribaltati perche' quelli che per anni hanno avuto l'iniziativa difendendo un modello di ingiustizia dall'alto di teorie capitaliste, sono ora sulla difensiva''.
    ''Siete voi del Fsm che lottate per un mondo piu' giusto - ha detto convinto - che guidate l'offensiva adesso'', ma perche' essa si mantenga ''dobbiamo mettere a punto una strategia di unione di tutte le tendenze'' per ''cambiare la direzione della storia''.
    Prendendo quindi parte ad una polemica esistente fra due anime del Forum - una piu' movimentista ed una piu' di progetto preciso - Chavez ha ricordato che ''abbiamo poco tempo per salvare la vita del pianeta'' e quindi un ''Forum che si riunisce cosi', con caratteristiche quasi folcloristiche, puo' anche andare bene, ma non aiuta per questo progetto di cambiamento''.
    Infine, insistendo sul fatto che ''il modello capitalista sta mettendo fine alla vita nel pianeta e che bisogna presto fare qualche cosa'', il leader venezuelano ha detto che ''da qui stiamo risollevando la bandiera del socialismo, per avviarci verso i nuovi cammini del 21/o secolo, e per costruire un solido movimento autenticamente socialista nel pianeta''.
    ''Un socialismo nuovo, fresco - ha aggiunto - che qui in America latina deve avere una forte componente indigena, senza copiare modelli, cosa che fu uno dei grandi errori del socialismo del secolo XX''.
    ''Io cristiano come sono - ha concluso - credo anche che Cristo e le correnti cristiane autentiche hanno molto da offrire al progetto socialista del 21/o secolo in America latina''.
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  2. whipping boy
     
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    e non dimentichiamo il suo più stretto alleato

    Le investiture di Evo
    Diletta Varlese
    24 gennaio 2006
    Nelle rovine pre incaiche di Tiwanacu, sulle ande boliviane, si è tenuta la cerimonia di investitutra più attesa degli ultini 514 anni per il popolo indigeno aymara a cui il neo presidente eletto Evo Morales appartine. I successivi due giorni di festa initerrotta sono
    stati il respiro di sollievo della maggioranza del popolo boliviano, che il 18 dicembre scorso ha voluto credere fosse possibile cambiare la realtà dura del proprio paese, dando una possibilità a questo cocalero indigeno.
    L'investitutra di Morales, come capo della nazione, è stata una cerimonia piena di senso storico, una rappresentazione della speranza riposta dai 30.000 presenti nel riscatto delle popolazioni indigene, non solo boliviane (aymara, quechua e guaranì), ma di tutto il contiennte americano, e la fine di cinque secoli di repressione e sfruttamento.
    Morales è apparso sulla "porta del sole" vestito come un re antico,portando gli abiti dei principali popoli indigeni boliviani.

    Sotto un sole andino bruciante e propiziatorio, i quattro sacerdoti officianti gli hanno consegnato il bastone del potere. Di fronte a lui una distesa immensa di visi, provenienti da tutti gli angoli del paese e da molti paesi centro e sud americani.
    Molti anche i curiosi e i giornalisti, tutti k'aras (i bianchi, in lingua aymara).
    Invitati speciali, i rapresentanti di tutti quei popoli indigeni per cui Morales spera di essere l'esempio di un possibile ambiamento, un punto di riferiemnto nella lotta per il rispetto delle diversità culturali, dell'autodeterminazione e del diritto alla terra e al territorio. Mapuche argentini e cileni, quichua dell'Ecuador, charrua dell'Uruguay, misquitos dell' Honduras, Maya del Guatemala e molti altri tra quelli che gli portano omaggio e benedizione.
    Presenti anche le associazioni dei parenti dei desaparecidos di tutte le dittature sudamericane degli anni '80. Grandi assenti, invece, i Nobel Rigoberta Menchù e Gabriel Garcia Marquez, e Fidel Castro, colui che Morales nomina sempre aggiungendo "hermano y compañero". Si dice che il soroche, il mal di altitudine avrebbe potuto nuocergli.


    Molta emozione nelle parole di Morales, che, rispettando la simbologia dell'evento, nel suo discorso non ha menzionato questioni prettamente politiche o economiche, ed ha mantenuto il taglio sociale e culturale.
    Il sole si è congedato alla fine della cerimonia, e si dice la pioggia sia stata clemente anche grazie ad un rito propiziatorio tenutosi all'alba, per poi rovesciarsi torrenziale, lavando i festeggianti nella piazza del paese.


    Di tutt'altro genere invece la cerimonia ufficiale di domenica 22, presso il palazzo del Congresso nella capitale La Paz. Morales non cede a vestire in giacca e cravatta e si presenta con l'immancabile giacchetta di taglio indigeno. Ma l'attenzione, sopratutto della stampa nazionale ed internazionale, è rivolta ai suoi ospiti, Chavez, Lula e Kirchner.
    Fuori dal palazzo, in Plaza Murillo dove migliaia di persone erano pressate contro le transenne, non è mancata la bordata di fischi quando ha sfilato il rappresentante degli Stati Uniti, Thomas Shannon.
    A La Paz, Morales ha toccato, in un'ora e mezza, i punti salienti del suo programma. Quello più caldo, la nazionalizzazione degli idrocarburi, è stato solo menzionato, senza specificare quale sara' la concreta politica per i contratti con le multinazionali.
    Morales si è anche avventurato a non escludere una collaborazione con gli Stati uniti, per esempio attorno al tema del Trattato di libero commercio, purché sia sempre salvaguardato l'interesse del popolo boliviano. Plaza Murillo, però, ha risposto con qualche fischio.


    Neppure a Chavez questa frase è piaciuta, ma sono usciti comunque sorridenti, tra abbracci e strette di mano, passando al Palacio Quemado, da cui si sono affacciati insieme per salutare la piazza gremita.
    Altro grande assente della festa, che si è spostata per la sera in Plaza San Francisco, nel cuore di La Paz, era il grande cantautore cubano, Silvio Rodriguez. Immancabili invece gli Intillimani.
    Le cerimonie ufficiali si concludono lunedi'23 nella capitale storica Sucre, con l'insediamento dei prefetti, I governatori delle nove regioni boliviane, eletti per la prima volta lo scorso 18 dicembre e segno del procedere dei piani di autonomia regionale, per cui spingono sopratutto le regioni di Santa Cruz e Tarija, anche se ad oggi non sia chiaro affatto in che termini la intendano siluppare.
    Ora non resta che aspettare, come farà il popolo boliviano. Nelle orecchie risuonano ancora le bande festose, con la speranza di mettere a posto i conti con la storia senza dover pagare con altre vite la legittima richiesta di eguaglianza e giustizia.


    Archivio
    2001 - 2004

    Edited by whipping boy - 10/2/2006, 15:28



    il dado è tratto
    occhio perchè quelle nella terra non sono buche
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  3. whipping boy
     
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    Banca mondiale e America latina / Parla José Luis Rhi-Sausi (Cespi)



    La parola chiave è redistribuzione
    E Washington ha perso il consenso



    di Davide Orecchio



    La Banca mondiale pubblica un nuovo rapporto sull’America latina nel quale si parla di povertà e inclusione sociale. Concetti relativamente nuovi, per l’istituto di Washington. Ma quanto possono influire sullo scenario latinoamericano?

    In modo limitato. Bisogna avere ben presente il contesto, infatti. Al momento l’organismo multilaterale più influente in America latina non è la Banca mondiale. Se per l’Africa o l’Asia quello che fanno o dicono le istituzioni di Bretton woods, quindi Bm e Fondo monetario internazionale, è molto importante, in America latina da alcuni anni a questa parte l’istituzione più importante è la Banca interamericana di sviluppo: se guardiamo al volume di prestiti e interventi finanziati da questo istituto, ci rendiamo conto che non c’è confronto con quanto fa la Bm nell’area.

    Intende dire che il Washington consensus non detta più legge in questa zona?

    Le cose sono cambiate. Per tutti gli anni novanta, e fino a poco tempo fa, le sperimentazioni neoliberiste, il processo di liberalizzazione economica, l’apertura esterna e le privatizzazioni erano state ispirate ideologicamente da Bm e Fmi. Ma questo processo in tutta l’America latina viene considerato un fallimento. Si tratta di una percezione popolare che non riguarda solo gli esperti. Non è un dibattito intellettuale: le ultime elezioni mostrano un elettorato che vota posizioni contrarie al neoliberismo. Il punto chiave del fallimento è che il problema storico della regione, la disuguaglianza sociale e l’ingiustizia, non è stato risolto ma anzi si è aggravato. Le politiche neoliberiste non hanno migliorato la situazione. L’unico paese che ha fatto qualcosa sul serio per ridurre la povertà è stato il Cile, guarda caso con coalizioni di centrosinistra, e peraltro uno dei paesi più progrediti dell’area.

    In cosa è diverso l’approccio della Banca interamericana rispetto alla Banca mondiale?

    Nella Bid c’è una forte rappresentanza latinoamericana ed europea, anche se resta l’influenza nordamericana. Però i presidenti della Bid sono latinoamericani. C’è maggiore partecipazione rispetto ai meccanismi interni alla Banca mondiale. I cambiamenti che avvengono in America latina si sentono distintamente nella politica della Bid, che ultimamente ha assunto una vocazione sociale più netta. Inoltre in quest’istituto l’attenzione per lo sviluppo locale è molto forte, cosa che a Washington hanno scoperto solo a livello teorico e assai poco in termini operativi. Un terzo punto di differenza è la promozione di programmi che rafforzino le infrastrutture in chiave di integrazione tra i paesi, quindi non solo per unire i mercati interni, ma per creare una regione più unificata. I corridoi oceanici dal Pacifico all’Atlantico, ad esempio, sono finanziati soprattutto dalla Bid.

    Torniamo al rapporto della Banca mondiale. Le sembra che ci sia una correzione di tiro rispetto all’impostazione classica?

    Il rovesciamento del rapporto tra crescita e distribuzione è senz’altro una novità. Per molto tempo gli analisti della Banca mondiale e del Fondo monetario hanno sostenuto: “prima si cresce e poi possiamo parlare di distribuzione”. A lungo hanno considerato le variabili macroeconomiche come elementi fondamentali e trainanti di una catena che poi, a cascata, creasse un qualche benessere. Questa impostazione la stanno modificando. Adesso dicono: “la crescita non si raggiunge con elementi distributivi così iniqui”. È un piccolo cambiamento. Però poi viene il problema delle ricette. Quali politiche distributive fare? Un tema fondamentale, ad esempio, è la fiscalità. In America latina non si pagano le tasse, i ricchi non le hanno mai pagate. Noi abbiamo welfare iperrachitici, o addirittura smantellati del tutto nel periodo del neoliberismo. Su questo come si pronuncia la Bm? È un elemento decisivo. È sempre stato privilegiato il pagamento dell’Iva rispetto alle imposte indirette, ma così non si va da nessuna parte, pagano sempre gli stessi, mentre le rendite finanziarie non pagano niente. È sulle politiche specifiche che dobbiamo giudicare la Bm.

    Il rapporto è molto critico. Sostiene che il dramma della povertà in America latina non è stato affrontato adeguatamente. Cosa stanno facendo o si accingono a fare i nuovi governi per la riduzione della povertà?

    Non è che tutta l’America latina sia ingiusta. Abbiamo una situazione a macchia di leopardo, con zone povere e altre meno povere. Un po’ come il vostro Mezzogiorno. Ma la grande novità delle politiche sociali, quasi una scoperta per la regione, è la territorializzazione dello sviluppo. È decisivo che la lotta alla povertà passi per politiche territoriali, perché sennò i finanziamenti non arriveranno mai ai poveri. È un approccio che l’Europa conosce da una vita (con i fondi strutturali), ma per l’America latina si tratta di una novità, lo ripeto.

    È quanto sta facendo il Messico col programma Oportunidades: hanno fatto una mappa del territorio nazionale individuando non solo regioni ma anche municipi con alto indice di marginalità. Operazione analoga è quella di Lula in Brasile con Bolsa familia: certo, dà soldi direttamente alle famiglie povere, il suo è puro assistenzialismo, ma è comunque la prima volta che si affronta il problema a livello governativo. L’importanza di canalizzare i fondi può sembrare una banalità, ma le assicuro che non lo è. Pensi che la spesa sociale, in Brasile e Messico, supera i cinquanta miliardi di dollari, cioè più di tutte le cooperazioni internazionali messe insieme. Ma solo una minima parte degli stanziamenti arriva a chi ne ha davvero bisogno.

    Queste nuove politiche sociali, seppure in parte mal formulate, cominciano ad affermarsi in tutta l’America latina. Ormai vincono le elezioni solo le forze che vogliono fare politiche magari demagogiche e populistiche, però distributive. Chávez possiamo criticarlo quanto ci pare, potrà non essere un personaggio emozionante, ma ha tolto ai ricchi per dare ai poveri, su questo non c’è dubbio. E lo stesso farà Morales in Bolivia. E così Kirchner in Argentina…

    Insomma l’elemento comune delle nuove amministrazioni, diciamo di centrosinistra, è la redistribuzione delle risorse?

    Sì. Però attenzione: la socialdemocrazia non c’entra per niente col contesto latinoamericano. Per tradizione la forza politica che fa queste cose in America latina è il populismo. I populisti sono tutti redistributivi. Perón in Argentina o Cárdenas in Messico hanno integrato ampie fasce di popolazione indigente e migliorato i sistemi di educazione. Poi senza dubbio ci sono gli elementi dittatoriali… Insomma è difficile giudicare, dobbiamo essere molto cauti. Alternative ai populismi ce ne sono, ma vanno costruite nel contesto latinoamericano.

    Quali sono?

    Una ad esempio e Michelle Bachelet. Ma lei è possibile solo in Cile! Io sono messicano, e le assicuro che in Messico una Bachelet nemmeno nei prossimi cinquant’anni ce l’avremo. In Messico non sono populisti solo i politici, l’intera popolazione è populista. Si emozionano con López Obrador che regala mazzi di fiori ai poveri o apre un circo gratis a natale. Questa è la cultura politica. E qual è l’alternativa che propone la Banca mondiale? Ancora il libero mercato? Se fanno così, allora non sono semplicemente di destra, ma vivono proprio su Marte.

    Pensa che la nuova presidenza Wolfowitz abbia dato una sterzata neocon all’istituto nei suoi rapporti con l’America latina?

    Credo di no. La Bm va ancora per conto proprio. Né Wolfowitz né gli Usa sanno ancora che fare: erano troppo impegnati con l’Iraq e adesso si ritrovano con un America latina per metà populista e per metà di sinistra. Non sanno che pesci pigliare. Ma finiranno col trovare un accordo coi nuovi governi. Penso che il loro partner principale diventerà il Brasile di Lula, l’unico paese che possa garantire la stabilità politica nell’area. È lo stesso Brasile che si candida a questo ruolo. Ha tutto per farlo, economicamente e politicamente, a parte la lingua.



    (www.rassegna.it, 14 febbraio 2006)






    Un nuovo rapporto sull'America latina



    La Banca mondiale scopre la povertà



    di Davide Orecchio



    La Banca mondiale inverte la rotta sull’America latina. E la boccia. Dopo anni di ricette neoliberiste ispirate al principio economico “prima di tutto crescere e poi, semmai, redistribuire”, l’istituto presieduto dall’ideologo neocon Paul Wolfowitz ha presentato a Washington un rapporto su “Riduzione della povertà e crescita: circoli viziosi e virtuosi” il cui titolo è di per sé esplicito: per crescere di più – questo il succo del rapporto – i paesi dell’area devono diminuire il tasso di povertà tra la popolazione, promuovere politiche di formazione scolastica e, di conseguenza, inclusione sociale. Si dirà: bella scoperta, ma per la Banca mondiale si tratta comunque di un cambiamento. Il segno che anche negli uffici di H Street hanno capito che la dottrina neoliberista dettata dal Washington consensus non convince più nessuno a sud di Los Angeles. Solo che questa premessa dà luogo a una conseguenza paradossale. Il rapporto, infatti, giudica “deludenti” i risultati economici raggiunti dagli stati latinoamericani negli ultimi decenni e accusa i governi di non aver fatto abbastanza per ridurre la povertà. Il “subcontinente” americano – accusa la Bm - è una delle “aree più inique del mondo, con quasi un quarto della popolazione ridotto a vivere con meno di due dollari al giorno”, ossia ampiamente al di sotto della soglia minima di sussistenza. Dov’è il paradosso? Nel fatto che l’istituto, criticando “decenni” di politiche inefficaci, finisce col bocciare le sue stesse ricette insieme a quelle del Fondo monetario internazionale.

    Ad ogni modo un giudizio severo, quello dell’istituto. Fondato su dati oggettivi, forse anche addolciti rispetto alla realtà. Ma piuttosto curioso riguardo alla scelta politica dei tempi. Lo studio esce infatti a ridosso di un’epocale cambio di rotta – quasi una palingenesi politica, con sterzata netta a sinistra – in molti paesi del Sudamerica, e a pochi mesi dalle elezioni in Messico (dove il populista-progressista López Obrador potrebbe strappare la presidenza federale a Fox).

    Il succo del Bm-pensiero è presto detto: se i paesi latinoamericani non vogliono vedersi superati dalla Cina e da altre economie asiatiche, devono combattere la povertà in modo più aggressivo. È la povertà – ha dichiarato infatti Pamela Cox, vicepresidente della Bm, presentando il rapporto – “che mina la crescita della regione”. Secondo lo studio, un calo del 10% nei livelli di povertà aumenterebbe la crescita economica dell’1%. Viceversa, un aumento della povertà del 10% non solo riduce la crescita dell’1%, ma causa una contrazione degli investimenti fino all’8% del Pil. Lo studio insiste sull’esempio cinese: tra il 1982 e il 2000 Pechino ha realizzato una crescita pro capite annuale dell’8,5%, riducendo la povertà di 42 punti percentuali. Negli anni ottanta, invece, il Pil pro capite in America latina è calato dello 0,7%, mentre nel decennio successivo è cresciuto dell’1,5%, senza cambiamenti significativi nei livelli di povertà. Si è così determinato “un circolo vizioso tra alta povertà e bassa crescita” – insiste il rapporto –, dal momento che le fasce povere della popolazione non possono accedere al credito, né intraprendere attività che generino profitti e investimenti. Più sono i poveri, meno si cresce come insieme: questa l’equazione della Bm. Che poi si traduce in molteplici contesti. Ad esempio più una regione difetta in infrastrutture, meno investimenti attrae. Oppure: se una famiglia è povera, non investirà nella scolarizzazione dei figli, e non cambieranno gli squilibri sociali, con ampie fasce escluse dal benessere.

    Per invertire il circolo da vizioso a virtuoso, la ricetta della Bm suggerisce un “attacco su larga scala alla povertà” grazie a investimenti nel sistema scolastico e universitario e in infrastrutture che consentano ad aree più ampie di usufruire di servizi pubblici per i ceti indigenti. Ma i programmi di spesa, sottolinea il rapporto, devono essere maggiormente equi, arrivando davvero a chi ne ha bisogno. Al riguardo lo studio cita gli esempi positivi di Bolsa Familia in Brasile, Oportunidades in Messico, e Familias en Acción in Colombia. “La conversione dello Stato in un soggetto che promuova pari opportunità e pratiche di redistribuzione efficiente è, forse, la sfida più impegnativa”, conclude il rapporto.

    I dati
    Circa il 25% della popolazione latinoamericana vive con meno di due dollari al giorno.

    Negli ultimi 15 anni la povertà è leggermente diminuita nell’America centrale (dal 30 al 29%), è aumentata nelle comunità andine (dal 25 al 31%) mentre è diminuita nell’area del Cono Sud (dal 24 al 19%).

    America latina e Caraibi sono la regione più iniqua del mondo, con l’eccezione dell’Africa subsahariana. Un decimo della popolazione detiene il 48% della ricchezza.

    All’interno dei singoli paesi il divario economico è altissimo: nel 2000, in Brasile, le entrate pro capite nei comuni più poveri non arrivavano al 10% di quelle nei comuni più ricchi. Le entrate pro capite nella regione messicana del Chiapas ammontano al 18% di quelle di Città del Messico.

    Nelle famiglie con a capo persone provviste di un diploma di scuola superiore la povertà è del 25-40% inferiore rispetto ai nuclei dipendenti da persone che non hanno completato l’educazione primaria.

    Lavoratori atipici o autonomi occupano dal 25 al 70% del mercato del lavoro nei diversi stati. Le differenze di genere, nei salari, vanno dal 12% del Messico al 47% del Brasile. Ma le differenze etniche sono molto più marcate. In media la popolazione nativa guadagna dal 46% al 60% in meno; in Brasile i meticci e le persone di colore guadagnano esattamente la metà dei bianchi.



    (www.rassegna.it, 14 febbraio 2006)

     
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  4. whipping boy
     
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    da www.granma.cu


    EDITORIALE
    Il governo di Bush ha ordinato di svolgere le elezioni per la seconda volta
    • I Caschi Azzurri reprimono il popolo di Haiti

    Dopo due anni di occupazione straniera dopo il colpo di stato contro Jean Bertrand Aristide, orchestrato dalla Casa Bianca con la collaborazione di Parigi, ad Haiti, paese sofferente, si sono svolte una settimana fa le elezioni politiche per eleggere un nuovo presidente. La giornata elettorale ha visto una buona partecipazione, nonostante alcune episodi violenti e i ritardi nei collegi elettorali dei quartieri più poveri.

    Più del 60% degli haitiani con diritto al voto sono andati alle urne con la speranza di un cambiamento in un paese dove le constanti invasione nordamericane e le successive dittature hanno frenato e impedito due secoli di sviluppo.

    Più dell’80% degli 8 milioni di haitiani vive in povertà e una simile percentuale non ha lavoro; il tasso d’analfabetismo è molto alto e l’aspettativa di vita non supera i 50 anni. Il SIDA si sta espandendo rapidamente. Le recenti elezioni di Haiti sono state riconosciute dalla comunità internazionale come un passo positivo verso la stabilità e la pace in questa nazione. Già dall’inizio le proiezioni hanno dato come vincitore l’ex presidente René Preval.

    I primi risultati diffusi dalle autorità elettorali hanno mostrato un buon vantaggio di Preval: il 61 % dei voti - molto piè del minimo necessario per vincere le elezioni nella prima giornata. La stampa di Haiti e i mezzi di comunicazione internazionali hanno riflesso la chiara vittoria.

    Con il passare dei giorni il risultato di queste elezioni, rimandate per mesi, per ordine degli Stati Uniti, è precipitato sotto il manto della manipolazione e del sospetto: sette giorni dopo la votazione il Consiglio Elettorale Provvisorio – CEP – non ha ancora concluso lo scrutinio, anche se doveva in realtà comunicare i risultati al massimo 72 ore dopo la chiusura dei seggi.

    Domenica 12 il presidente dell’autorità elettorale, a sorpresa, ha annunciato che i voti a favore di Preval erano diminuiti al 49% mentre la pagina Web di questa istituzione dava il 52% a suo favore.

    Ieri, lunedì 13, il Consiglio Elettorale ha informato che sul 90% dei voti scrutati, l’ex presidente e candidato del Partito La Esperanza, contava sul 48,7% dei voti a suo favore.

    La manipolazione dei risultati è stata evidente e vergognosa.

    Due dei membri del Consiglio Elettorale hanno denunciato che sono stati manipolati i tabulati del voto. Pierre Richard Duchemin, rappresentante della Conferenza Episcopale della chiesa Cattolica nell’ente nel Consiglio Elettorale ha detto a una radio del paese che “sono avvenute insane manipolazioni dei dati e che non c’è nulla di trasparente”.

    Un altro dei giudici per le elezioni, Patrick Requiere, ha criticato, parlando con la stampa, Jacques Bernard, direttore generale del Consiglio Elettorale per non aver consultato il resto dei membri di questo organismo e per non aver rivelato dove sta prendendo quei risultati che ha annunciato alla stampa.

    Il candidato alla presidenza, Jeune Jean Chavannes, quarto sinora nella votazione, ha riconosciuto la vittoria di Preval ed ha dichiarato che la situazione creata è il risultato di un complotto che è stato montato per creare il caos sociale.

    Chavannes ha fatto un richiamo perchè sia garantita la sovranità nazionale e che non ci si presti a interessi meschini come vogliono alcuni.

    Tutto segnala che c’è stata un’infiltrazione da differenti vie. Il signor Bernard, direttore generale del Consiglio Elettorale sta obbedendo agli ordini degli Stati Uniti che vogliono si faccia una seconda elezione.

    Più di un analista si è incaricato di ricordare in questi giorni che Preval non piace a Washington per i suoi vincoli precedenti con Aristide, “sloggiato” dal potere a forza dalle truppe nordamericane e inviato in esilio forzato.

    Il The New York Times ha pubblicato in gennaio una vasta investigazione che ha dimostrato gli sforzi dell’Istituto Internazionale Repubblicano, molto vincolato all’amministrazione Bush e di vari funzionari del Dipartimento di Stato, per destabilizzare il governo di Aristide ed espellerlo da Haiti.

    Di fronte all’evidente tentativo di rubare la vittoria di René Preval, figura di grande prestigio che ha sempre servito il suo popolo, i suoi sostenitori, nella maggioranza persone umili dei quartieri poveri, si sono lanciati per le strade negli ultimi tre giorni, esigendo che si rispettino i risultati.

    Migliaia di manifestanti hanno protestato di fronte alla sede del Consiglio Elettorale e del Governo, gridando: “Preval è il presidente” e “Ladrone, non sai neanche contare”, riferendosi chiaramente al modo di fare del direttore generale del corpo elettorale.

    I manifestanti hanno accusato il CEP di aver manipolato i voti ed hanno dimostrato chiaramente la loro opposizione a una seconda votazione, gridando “Non voteremo due volte”!

    Le dimostrazioni di lunedì 13 sono state represse dai Caschi Azzurri della ONU presenti nel paese, che hanno provocato molti feriti e almeno un morto. La violenza è ritornata in questo paese in miseria dopo alcuni giorni di calma post elettorale ma si prevedono nuovi scontri se continuerà il tentativo di imporre al popolo un risultato falso delle elezioni.

    Da Washington, con un incredibile cinismo, il portavoce del Dipartimento di Stato ha dichiarato, dopo una riunione tra Bush, Condoleezza Rice e il segretario generale della ONU che: “Quando uno scrutinio è molto discusso è importante che le parti si uniscano e cooperino al disopra delle bandiere, nell’interesse del paese”. Nessuno sa con certezza a che elezioni si è riferito Sean McCormack, poiché nel caso di Haiti il secondo candidato non ha avuto nemmeno il 12% dei voti.

    Quel che sta succedendo ad Haiti non stupisce perchè non è la prima volta che gli Stati Uniti intervengono come vogliono nel destino di questa nazione e non è la prima volta che manipolano spudoratamente a loro convenienza i risultati elettorali in un altro paese.

    La comunità internazionale deve esigere che si rispetti la volontà della maggioranza del popolo di Haiti, espressa con i voti nelle urne e che non si porti questa povera nazione a tempi peggiori di violenza e di caos, come conseguenza di meschini interessi degli Stati Uniti e di determinati gruppi di potere di Haiti.

    Il mondo non può permettere che il potere imperiale pretenda di tenere le redini in tutto il pianeta; il popolo haitiano, paziente, eroico e pieno di abnegazione, lotterà per i suoi diritti e questo non lascia dubbi per nessuno. Tutta la responsabilità cadrà sulle truppe degli occupanti e sul governo degli Stati Uniti che non vacillano mai nell’usare le armi contro i popoli.




    tradotto

    La demograzia.

    DEMOCRATICAMENTE PARLANDO QUELLO CHE A HAITI VOLEVANO ELEGGERE A NOI UN CI GARBA.
    QUINDI DEMOCRATICAMENTE VI DICIAMO DI ANNULLARE LE ELEZIONI E DI RITORNARE AL VOTO.
    SE RIELEGGERETE DI NUOVO IL SOLITO NOI DEMOCRATICAMENTE VI FAREMO MORI' TUTTI DI FAME TANTO CI SIETE GIA' VICINI.
    AVETE 'APITO?
    giorgino il busce..

    Edited by whipping boy - 15/2/2006, 16:30
     
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  5. tommaso_scu
     
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    odio quando postate topic kilometrici , quando presumo manco voi li abbiate letti.. alien.gif
     
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  6. whipping boy
     
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    GUANTANAMO: ESPERTI ONU CHIEDONO CHIUSURA E PROCESSI
    GINEVRA - E' ufficiale: i cinque esperti indipendenti della Commissione dell'Onu per i diritti umani hanno chiesto oggi agli Stati Uniti ''la chiusura immediata del centro di detenzione di Guantanamo Bay, di processare tutti i prigionieri davanti ad un tribunale indipendente e competente o rilasciarli''.

    Pubblicata oggi a Ginevra, dopo essere stata anticipata dalla stampa, la versione finale del rapporto dell'Onu sulla situazione dei prigionieri detenuti dagli americani sulla base di Guantanamo non appare modificata e denuncia una situazione molto grave, che sfocia nella tortura ed e' accompagnata da severa dichiarazione congiunta.

    I cinque relatori indipendenti della Commissione dell'Onu per i diritti umani confermano le accuse di ''detenzione arbitraria'', di ''tecniche di interrogatorio che, in particolare se usate in modo simultaneo, equivalgono a trattamenti degradanti''. Inoltre, ''se in casi particolari, descritti in interviste, la vittima ha sperimentato grande dolore o sofferenza, questi atti equivalgono a tortura'', si legge nelle conclusioni del rapporto.

    Nel documento di 54 pagine, si afferma anche che '' il ricorso eccessivo alla violenza'' o ''l'alimentazione forzata dei detenuti in sciopero della fame'' devono essere considerate come ''equivalenti alla tortura''. Gli autori del rapporto non hanno potuto recarsi sulla base di Guantanamo, ma citano informazioni secondo le quali, in varie circostanze i detenuti sono stati vittime di violazioni del diritto della ''liberta' di religione o fede''.

    Nelle raccomandazioni finali, gli esperti chiedono di processare o liberare i detenuti e chiudere Guantanamo. Nel frattempo, gli Usa devono ''astenersi da ogni pratica equivalente a tortura, maltrattamenti, o punizioni crudeli, degradanti o inumane''. In particolare le tecniche speciali di interrogatorio autorizzate dal Dipartimento della difesa dovrebbero essere revocate immediatamente''.

    Il rapporto esorta le autorita' Usa ad indagare sui casi di maltrattamenti o tortura e a giudicare i responsabili. Tutte le vittime di tortura dovrebbe inoltre ricevere un'indennita' ''adeguata e giusta''.

    I cinque relatori chiedono infine di avere un accesso illimitato al centro di detenzione di Guantanamo, con visite che includano colloqui privato con i detenuti.

    Individialmente dal 2002 ed in gruppo dal giugno 2004, i cinque esperti hanno chiesto alle autorita' statunitensi di poter visitare le persone arrestate o detenute per sospetti rapporti con il terrorismo o altre violazioni sulla base di Guantanamo e altrove. Tre dei cinque cinque relatori- Leandro Despouy (relatore speciale sull'indipendenza della giustizia), Paul Hunt (salute fisica e mentale, signora Asma Jahangir (liberta' di religione), Manfred Nowak (tortura), Leila Zerrougui (detenzione arbitraria) - erano stati invitati a Guantanamo dagli Usa alla fine del mese di ottobre del 2005 ma avevano rinunciato a recarsi nel campo di detenzione a causa del rifiuto delle autorita' statunitensi di consentire colloqui privati con i detenuti.

    Il rapporto e' il frutto di sei mesi di lavoro durante i quali i relatori si sono informati presso il governo statunitense, ex detenuti, avvocati e organizzazioni non governative. E' destinato alla Commissione dei diritti umani, che dovrebbe riunirsi per l'ultima volta in sessione annuale in primavera a Ginevra prima di essere sostituita dal nuovo Consiglio dell'Onu per i diritti umani.
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    sicuramente ne terrano di conto come no
     
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  7. xAm
     
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    ale mo è finita la bazza con le russe e hai iniziato con le sudamericane ? va di moda il tipo impegnato ?
     
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  8. whipping boy
     
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    Paradosso: secondo l'ONU, Cuba è l'unico paese americano senza denutrizione
    La notizia è vecchia di qualche giorno, ma è stata talmente occultata che è stato difficile recuperarla e... non vi salti in mente di cercarla sulla stampa italiana: pubblicarla sarebbe stato alto tradimento! E' perfino imbarazzante scrivere che, secondo il Programma Mondiale Alimentare (PMA) delle Nazioni Unite l'unico paese del continente americano (Stati Uniti compresi) libero dalla denutrizione è Cuba [Gennaro Carotenuto].

    Secondo la signora Myrta Kaulard, rappresentante di questo programma che fornisce alimenti in cinque province dell'isola, appena il 2% dei minori cubani ha deficit alimentari. Tali deficit però, secondo il PMA, sono attribuiti a cattive abitudini familiari e non a carenze strutturali. Non solo Cuba è l'unico paese libero da denutrizione infantile, ma secondo i dati delle Nazioni Unite, a partire dal 1996 si è trasformato in paese donatore a paesi come Repubblica Dominicana, Jamaica, Honduras, Haiti e altri che ricevono migliaia di tonnellate di aiuti alimentari cubani.
    Ben diversa è la situazione nel resto del continente. Catastrofica è in Bolivia, Guatemala ed Haiti. In Bolivia, secondo la PMA, l'83% dei bambini non ha pienamente soddisfatte le sue necessità alimentari e la mortalità infantile è 15 volte quella cubana. Secondo l'ONU la denutrizione cronica nelle aree rurali supera il 50%.
    Escludendo, non potrebbe farsi diversamente, che il record cubano sia attribuibile a meriti dell'inefficiente e criminale sistema socialista di governo cubano, i motivi di tale performance vanno cercati altrove. Per esempio nel fatto che Cuba è l'unico paese che non riceve né aiuti, né prestiti né, soprattutto, "consigli" da organizzazioni come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, che hanno come obbiettivo (e lo mostrano con i risultati dell'efficientissimo sistema neoliberale boliviano) quello di collaborare allo sviluppo. Cuba è anche l'unico paese del continente a non avere un accordo di cooperazione allo sviluppo con l'Unione Europea e (è cosa nota) da mezzo secolo non ha relazioni né economiche né politiche con gli Stati Uniti. Sarà per questi dettagli che Cuba è libera dalla denutrizione?
    La notizia è dunque paradossale ed imbarazzante. La stampa ha scelto di occultarla giacché a riportarla si viene automaticamente accusati di essere complici del terribile gulag tropicale. E oltretutto bisognerebbe anche contestualizzarla e spiegarla, cosa ancora più imbarazzante per chi da 15 anni scrive che Cuba è ridotta alla fame e che al contrario il neoliberismo sta trasformando il mondo nel paese dei balocchi di collodiana memoria.
    Eppure il governo degli Stati Uniti è preoccupatissimo per il cambio di governo a La Paz, ma non era per nulla preoccupato, anzi aiutava fraternamente, i precedenti governi (ortodossamente neoliberali) che sono riusciti nel bel record di denutrire l'83% dei bambini boliviani. Lo stesso governo degli Stati Uniti è da quasi mezzo secolo terrorizzato da Cuba, forse perché oramai la mortalità infantile nell'isola è inferiore a quella di due terzi degli stati dell'unione. Guarda tu che brutti scherzi fa il socialismo.

    http://www.gennarocarotenuto.it
     
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  9. whipping boy
     
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    per chi capisce il castigliano, un buon giornale virtuale argentino
     
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  10. whipping boy
     
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    Cuba: Castro, volevano uccidere me e Chavez
    Arrestato recentemente membro organizzazione terroristica
    (ANSA) - L'AVANA, 1 MAG - L'organizzazione terroristica anticubana Alpha 66 voleva assassinare Fidel Castro e Hugo Chavez. Il presidente cubano lo ha detto rivolgendosi ad oltre un milione di persone radunatesi nella Plaza de la Revolucion de L'Avana, per celebrare il Primo Maggio. In proposito il leader maximo ha indicato il recente arresto di un membro di Alpha 66 ed ex membro delle forze speciali Usa che era pronto 'a compiere azioni contro Cuba'.

    AVANTI CON ATTENZIONE MORALES
    Bolivia: Morales nazionalizza settore idrocarburi
    Presidente rivendica diritto popoli a controllare risorse
    (ANSA) - LA PAZ, 1 MAG - Il presidente boliviano Morales ha firmato un decreto con il quale ha nazionalizzato in via definitiva il settore degli idrocarburi. Lo ha reso noto l'Agenzia boliviana di informazioni, precisando che ''la storica cerimonia'' e' avvenuta nelle installazioni di giacimento petrolifero di San Alberto. Nel corso del suo intervento, Morales ha rivendicato ''il diritto di tutti i popoli di controllare le proprie risorse naturali''.
     
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  11. AdamClayton
     
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    E perchè tutti gli articoli che ho postato su Chavez non me li avete mai cagati, anticipando di mesi quello che è scritto qua????
     
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  12. hail, hail
     
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    ma nessuno si caga nemmeno questi
     
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  13.  
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    Il miglior supergossard degli ultimi 150 anni

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    CITAZIONE (AdamClayton @ 2/5/2006, 12:30)
    E perchè tutti gli articoli che ho postato su Chavez non me li avete mai cagati, anticipando di mesi quello che è scritto qua????

    perchè tu apri 47 post al secondo
     
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  14. whipping boy
     
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    CITAZIONE (AdamClayton @ 2/5/2006, 12:30)
    E perchè tutti gli articoli che ho postato su Chavez non me li avete mai cagati, anticipando di mesi quello che è scritto qua????

    li leggo tutti
    qui raccolgo solo la mia teoria di rivoluzione sudamericana
    faccio per non disperderli nel vento
     
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  15. massi78
     
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    Il bolivarismo abusivo di chavez e castro

    Vergogna Se oggi il Generale potesse vedere l´orrore a cui tentano di associarlo, morirebbe una seconda volta, per la vergogna
    Caudillismo Il socialismo caudillista del presidente venezuelano segue in realtà il modello cubano di una dittatura miltare

    Carlos Alberto Montaner

    Il presidente venezuelano Chávez è incinto. Ha detto che il suo Paese sta partorendo il socialismo del XXI secolo. Ha anche spiegato che questo aborto ha qualcosa a che vedere con il povero Simón Bolívar, una specie di Garibaldi venezuelano del primo terzo del XIX secolo che, ispirato dalla rivoluzione americana e da quella francese, liberò dal dominio spagnolo e contribuì alla creazione di niente meno che cinque Stati, destinati a fondersi in una grande repubblica libera e democratica: Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, che porta addirittura il suo nome.

    Che cos´è, insomma, questo socialismo del XXI secolo che Chávez vuole travestire da "bolivarismo"? Molto semplice. La televisione cubana internazionale ha mostrato recentemente un gruppo di sorridenti ufficiali venezuelani. Li guidava il generale di brigata Eduardo Centeno, direttore della Scuola superiore dell´esercito del Venezuela. A quanto sembra, si trovavano a Cuba per presenziare alle manovre di una manciata di vecchi carri armati sovietici pronti per sconfiggere l´imperialismo yankee e festeggiare ed essere festeggiati da Fidel Castro in una cerimonia castrense con scambio di doni e slogan rivoluzionari. A un certo punto, i militari venezuelani si sono messi a cantare l´inno emozionati.

    È difficile pensare che i militari venezuelani siano realmente rimasti impressionati dalle esercitazioni dei loro compagni cubani. L´esercito cubano oggi è un guscio vuoto, con armi arrugginite, senza marina, e con un´aviazione sgangherata ridotta a un paio di squadriglie di Mig costosi e difficili da mantenere operativi. Le tattiche che gli hanno insegnato i sovietici sono quelle che non sono servite per avere ragione dei guerriglieri afgani negli anni ‘70 e ‘80, al contrario di quanto è successo con la successiva spedizione americana: la resistenza dei Taliban fu liquidata completamente nel giro di poche settimane.

    Ma c´è un´altra lezione che è stata sicuramente più proficua per gli ufficiali venezuelani: hanno compreso esattamente in che cosa consiste il modello cubano, quel socialismo del XXI secolo che il tenente colonnello Chávez si sta tirando fuori dal ventre. Si sono resi conto che a Cuba la struttura dell´autorità consiste in un dittatore al vertice, circondato da militari che detengono il potere politico, il controllo delle forze di repressione e la direzione e l´amministrazione delle grandi imprese produttive. A Cuba, i militari sono la testa, il cuore e lo stomaco del sistema, mentre la società non è altro che forza lavoro docile e a buon mercato, al servizio dei loro capricci e interessi. Il sistema naturalmente, si ammanta di un discorso patriottico-nazionalista dotato di forte contenuto etico, tramite il quale si assicura la difesa della sovranità e l´instancabile dedizione alla redenzione degli umili, ma questo non è altro che il grande alibi: chiacchiere pure e semplici.

    Suppongo che a molti militari venezuelani sia piaciuto quello che hanno visto a Cuba. Hanno trovato la formula per collocarsi in cima alla piramide sociale e per di più sentirsi gli eroi e i protagonisti di una gloriosa impresa storica. Chávez li condurrà sulla strada dei privilegi, della ricchezza e della supremazia sociale. Quando il sistema si sarà consolidato, loro rappresenteranno la classe dominante, vivranno nello sfarzo, meglio del resto dei venezuelani, e saranno temuti e rispettati come accade agli alti ufficiali cubani. Nessuno potrà criticarli pubblicamente, e chi lo farà privatamente potrà essere accusato di oltraggio, davanti a tribunali dove a emettere la sentenza saranno altri militari austeri. Godranno di immunità e impunità. A Cuba, ad esempio, il generale Universo Sánchez uccise un vicino per una disputa banale e non subì altra conseguenza che un lieve ammonimento. La stampa cubana, naturalmente, non riportò il fatto e i corrispondenti stranieri neanche osarono provare a intervistare l´autore del delitto o la famiglia della vittima.

    Il socialismo del XXI secolo è questo: un miscuglio di dittatura caudillista, collettivismo e militarizzazione delle strutture di potere. Poco a poco, le tenaglie autoritarie stringeranno nella morsa la società venezuelana fino a sottomettere la stampa, schiacciare il sindacalismo libero, controllare i centri dell´insegnamento e mettere a tacere la Chiesa e le altre forze della società civile. Chávez ancora non ha fretta di impadronirsi delle grandi aziende, dato che incamera e amministra come gli pare i giganteschi introiti del petrolio, ma tutto accadrà a tempo debito.

    Dove porterà questo asse Cuba-Venezuela? Considerando gli impulsi costruttivisti di Chávez, che non smette di riorganizzare il mondo in base ai suoi spasmi creativi, è molto probabile che a un certo punto cercherà di lanciare una confederazione tra i due Paesi, ma solo come primo passo nella direzione di quell´aborto multinazionale bolivariano che gli è cresciuto come un tumore sotto al basco. La confederazione, poi, potrà clonarsi dolcemente incorporando altri amichetti dell´allegra catena rivoluzionaria: Evo Morales in Bolivia, Daniel Ortega in Nicaragua, un qualunque avventuriero che irromperà sulla scena in Ecuador o in Perù, arrivando alla presidenza sfruttando elettori istupiditi dal populismo e dall´ignoranza. La faccenda non è difficile: il modello e il discorso sono già pronti. Una volta al potere, i militari costruiscono le galere e tutti a far vela verso il mare della felicità, come Chávez ha definito una volta l´esperienza cubana. Questo è il socialismo del XXI secolo. Se Bolívar (che Marx odiava in modo brutale) alzasse la testa dalla sua tomba e vedesse l´orrore a cui cercano di associarlo, morirebbe una seconda volta, ma questa volta la ragione sarebbe la vergogna.

    Traduzione di Fabio Galimberti

    August 12, 2005

     
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