11 SETTEMBRE

Versione ufficiale vs 9/11 Truth Movement

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  1. AdamClayton
     
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    Risolto il mistero del WTC7

    Sono cinque anni che lo vado dicendo, ma nessuno mi ha mai voluto ascoltare. Ora invece gli scienziati con la “s” maiuscola mi hanno dato ragione, e posso quindi declamarlo a voce alta, una volta per tutte: è stata la stramaledettissima colonna 79 a cedere, innescando il crollo che ha portato il WTC7 alla distruzione totale.



    Come avete visto, lo ha detto il NIST, l’Istituto Nazionale per gli Standard della Tecnologia, che era stato incaricato dal governo americano di spiegare al mondo perchè quell’edificio fosse crollato così miseramente, sotto gli occhi di tutti, nel pomeriggio dell’11 settembre 2001.

    D’altronde, lo si vedeva benissimo anche dai filmati: quando un edificio crolla in forma così rapida e simmetrica, è chiaramente colpa di una delle colonne. Basta che ceda una di quelle, e tutta l’impalcatura si sfascia come se fosse di bambù.

    Nonostante questi indizi evidenti nessuno voleva crederci, e sostenevano tutti che “gli edifici in acciaio non crollano per il fuoco“. Persino gli stessi debunkers, ben coscienti di questa caratteristica dell’acciaio, erano arrivati ad inventarsi “profonde lacerazioni“ e “danni incommensurabili“ all’edificio (che sarebbero stati causati dal crollo della Torre Nord), pur di giustificare in qualche modo il suo “crollo spontaneo”.

    E invece non avevano alcun bisogno di mentire: era sufficiente informarsi, per sapere che nei grattacieli in acciaio basta che ceda una colonna qualunque, per dare inizio alla devastazione totale a cui abbiamo assistito. Gli edifici moderni, come è noto, non hanno alcuna ridondanza, e sono costruiti al limite della resistenza fisica. Mica è come una volta, quando le leggi ti obbligavano ad una ridondanza strutturale tale da poterti portare anche un elefante in ufficio: oggi i grattacieli si costruiscono alla “spera-in-bene”, si avvitano due travi qui e là, e che Dio ce la mandi buona. Se poi viene giù tutto, la colpa è degli inquilini che non stanno attenti a dove mettono i piedi. (Non tutti lo sanno, ma nei grattacieli americani esistono già da tempo dei vistosi cartelli ad ogni piano, che dicono: “Non appoggiatevi alle colonne – pericolo di crollo totale”).

    In questo caso nessuno si è appoggiato alla colonna 79, ovviamente, ma è stato il fuoco che ha deciso di violare le leggi della fisica, riducendo l’acciaio ad una specie di bastoncino di liquirizia sotto il sole d’agosto. E’ vero che l’acciaio resiste al fuoco, normalmente, ma in casi eccezionali questo può anche non avvenire.

    Sul crollo del WTC7 eravamo tutti un po’ confusi, riconosciamolo, ma per fortuna è arrivato il NIST a mettere le cose a posto: in un colpo solo ha smentito i debunkers raccontapalle, e ci ha finalmente regalato quel trancio di verità che aspettavamo con ansia da quasi sette anni. (Già in precedenza il NIST aveva “spiazzato” gli amici debunkers, che nelle Torri Gemelle avevano puntato tutto sulla “teoria pancake”, solo per vedersela invalidare dallo stesso NIST).

    Nessun complotto quindi, nessuna demolizione controllata, e che la vergogna accompagni fino alla morte tutti coloro che hanno osato sospettare dell’onestà dell’amministrazione Bush. D’altronde, bastava ragionare: un’amministrazione trasparente e sincera, che ha sempre messo l’interesse del cittadino davanti al proprio e non ha mai detto una sola bugia in otto anni di governo, perchè mai avrebbe dovuto mentirci proprio sul fatto più determinante di questi otto anni?

    Rimangono, è vero, alcune piccole ombre sul crollo di questo sfortunato edificio, ma nulla che non si possa spiegare con un pò di pazienza ed attenzione. Vediamo le principali obiezioni.

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    Qualcuno potrebbe domandarsi, ad esempio, come facessero i pompieri, la polizia e persino i cronisti della TV a sapere del crollo addirittura 3-4 ore prima che avesse luogo.

    In realtà non lo sapevano, ma lo temevano, e quindi hanno pensato bene di far sgomberare la zona fin dal primo pomeriggio. Si chiama “precauzione”, e non c’è nulla di male nell’applicarla, anche con eccesso. (A chi gli diceva ”Ma perchè sgomberare? Lo sapete che gli edifici in acciaio non crollano per gli incendi!”, i pompieri rispondevano “E tu che ne sai? Ci può sempre essere una prima volta, quindi levati di lì.” E per accertarsi di essere stati chiari, aggiungevano a voce alta: “The building is about to blow up”. Sapevano bene, infatti, che il semplice termine “crollo” non sarebbe bastato a spaventare la gente di New York, per cui hanno rincarato la dose dicendo letteralmente “L’edificio sta per saltare in aria”).



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    Ci sarebbero poi da spiegare questi strani “sbuffi” che sono apparsi sul fianco dell’edificio, in alto, pochi istanti prima del crollo, ma si è trattato sicuramente del famoso “effetto whiplash”, da noi noto come “colpo di frusta”.

    Quando cede una colonna, i pavimenti si ritirano con violenza verso di lei, fanno sbattere le porte ai piani superiori, e creano la compressione d’aria sufficiente a far esplodere alcune finestre.


    (Un pò come per le Torri Gemelle, dove gli “squibs” -- che sembravano denunciare la demolizione controllata -- erano in realtà il risultato di una compressione dovuta al crollo dei pavimenti. Anche quando lo squib si manifesta 30 piani più in basso, naturalmente).


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    Ci sarebbero poi quelle maledettissime pozze di acciaio fuso, che sono state trovate sotto le macerie delle tre torri a ben sei settimane dai crolli.

    Qualcuno ha suggerito che quelle pozze denunciassero un tipo di esplosivo particolarmente potente, ma in fondo si tratta solo di testimonianze, ed è noto come la gente tenda ad esagerare, in casi come questo. E’ quindi probabile che si sia trattato di qualche fuocherello residuo, che qualcuno nella confusione ha scambiato per metallo fuso.

    (Gli stivali dei pompieri si “fondevano” camminando sulle macerie? Gomma di merda, ovviamente, comperata a Taiwan per risparmiare. Comprate stivali seri, di sano cuoio texano, e vedrete che resistono a qualunque temperatura).

    Tutte queste testimonianze sono quindi false, o comunque errate. (Non lasciatevi fuorviare dalle immagini dei travi d’acciaio piegati come liquirizia, che stanno in fondo alla pagina linkata. Non ci sono prove che si trattasse di acciaio, e poi sotto il sole può succedere di tutto).


    Un’altra piccola contraddizione da appianare si trova in questo articolo del New York Times, che risale al 1989.

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    L’articolo spiega come Silverstein avesse rinforzato le strutture del WTC7, prima di prenderne possesso, costruendo una specie di “edificio dentro l’edificio”.

    Fra le altre cose, leggiamo:

    “Abbiamo costruito con tale ridondanza da poter rimuovere intere porzioni dei piani senza intaccare l’integrità strutturale”. E anche: “Oltre 375 tonnellate di acciaio, che richiederanno 18 chilometri di saldature, verranno installate per rinforzare i piani per le attrezzature supplementari della Solomon.”

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    Tutto inutile. A che serve rinforzare i piani, ci si domanda, se poi ci si dimentica delle colonne? Anche un bambino ci sarebbe arrivato.

    Pensate inoltre a questo aspetto curioso della faccenda: a giudicare dall’articolo del NYT, si potrebbe pensare che sia stato lo stesso Silverstein, con le sue “modifiche” strampalate, a gettare le basi per l’instabilità dell’edificio, e ci si aspetterebbe quindi di vedere il buon Larry trascinato in tribunale dall’assicurazione che ha dovuto rispondere del crollo. Invece la stessa assicurazione ha voluto premiare Silverstein con un rimborso di circa il doppio del prezzo che lui aveva sborsato inizialmente per comperare l’edificio. (Fra l’altro, questo dimostra che la famosa “voracità” delle compagnie assicurative è solo una favola, e che di fronte a casi umani come questo sono invece disposte a soprassedere con grande magnanimità sulle vere responsabilità dei disastri da rimborsare).

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    C’è infine da risolvere il caso del testimone Barry Jennings, che avrebbe udito esplosioni nel WTC7 fin dalle prime ore del mattino.



    Ma che volete, lui è un semplice ispettore comunale, e non è certo qualificato per distinguere delle esplosioni dal rumore di un cassetto che cade, di una porta che sbatte, o del collega che magari tossisce un po’ forte.

    Certo, se improvvisamente ti viene a mancare il pavimento sotto i piedi – come è successo a Jennings - vuole dire che la tosse del collega è proprio bruttina, ma è lo lo stesso NIST a tranquillizzarci, dicendoci che quelle esplosioni non possono esserci state e basta: “The sound levels reported by all witnesses do not match the sound level of an explosion that would have been required to cause the collapse of the building. “I livelli sonori riportati da tutti i testimoni non corrispondono ai livelli sonori di un’esplosione che sarebbe stata necessaria per causare il crollo dell’edificio”.

    Come faccia il NIST a conoscere l’esatto “livello sonoro” udito dai testimoni rimane un mistero, ma la correttezza della loro posizione è confermata da questo impeccabile ragionamento:

    If the two loud booms were due to explosions that were responsible for the collapse of WTC 7, the emergency responder—located somewhere between the 6th and 8th floors in WTC 7—would not have been able to survive the near immediate collapse and provide this witness account. “Se i due forti “boom” fossero stati causati da esplosioni che sono state responsabili per il crollo del WTC7, l’addetto all’emergenza [Jennings] – che si trovava fra il 6° e l’8° piano – non avrebbe potuto sopravvivere il susseguente crollo e fornire la testimonianza che ci ha dato”.

    Siccome Jennings è vivo, quelle non erano esplosioni. Semplice e lineare.

    (Non è che per caso erano invece “pre-esplosioni”, proprio di quelle che si usano per demolire edifici particolarmente robusti?)

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    Purtroppo, fra le tante belle notizie ce n’è anche una negativa: centinaia di esperti in demolizioni controllate di ogni parte del mondo sono stati improvvisamente licenziati dalle società per cui lavoravano. Non servono più, visto che ora sappiamo che basta minare una sola colonna per far crollare un intero grattacielo di 47 piani. Da oggi in poi basteranno quindi un manovale generico per piazzare il singolo candelotto, e un pensionato della locale bocciofila per dar fuoco alla miccia con un mozzicone di sigaretta acceso. Il resto, sta tutto nella fantasia di chi guarda la TV.

    Massimo Mazzucco


     
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  2. AdamClayton
     
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    IL CROLLO DELL'EDIFICIO 7: MORTA UNA TEORIA UFFICIALE SE NE FA UN'ALTRA

    “La montagna ha partorito un topolino”? Dovremmo dirlo anche stavolta, sette anni dopo l’11 settembre 2001, ora che il NIST (National Institute of Standards and Technology) ha finalmente esibito il suo studio sul crollo dell’Edificio 7 del World Trade Center, ancora privo di risposte convincenti.

    Solo che si tratta di un topolone bello grande, pieno di pagine e pagine di grafici e simulazioni.
    Il regalo troppo voluminoso fa più colpo su chi ha meno buon gusto. Allo stesso modo il pingue cadeau del NIST ha dato grande soddisfazione alla maggior parte dei giornali, che avevano già in caldo il titolo che serviva per l’occasione: “Finalmente risolto il mistero dell’Edificio 7”.

    Sempre rinviata, l’inchiesta dell’agenzia governativa statunitense ha fatto il suo debutto in società il 21 agosto 2008 con una conferenza stampa tenuta dall'investigatore capo Shyam Sunder.

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    Fonte dell'immagine: «Luogocomune».

    Abbiamo così appreso che il WTC7 sarebbe crollato a causa degli incendi per via di un evento mai riscontrato prima nella storia, un ‘unicum’ che annullerebbe ogni certezza in materia di sicurezza degli edifici. Salvo mettere le mani avanti: guardate che non è cosa che succede ogni giorno. Infatti sono cose che capitano solo nel giorno delle coincidenze magiche, l'11/9.
    La causa sarebbe un crollo progressivo totale provocato da espansione termica (“thermal expansion”, dice il NIST).

    Le conclusioni dell’inchiesta, in soldoni, sono queste: le macerie precipitate dalla Torre Nord sul WTC7 hanno innescato vasti incendi nella parte inferiore a est del grattacielo, abbastanza per lungo tempo da far dilatare le travature orizzontali che reggevano i pavimenti; la dilatazione orizzontale non riusciva a trovare sfogo in un’espansione all'esterno del palazzo, che rimaneva sufficientemente inalterabile, mentre lo trovava a danno di una colonna interna, la colonna 79, che ha finito per scardinarsi.

    Un ricorrente “deus ex machina” dei film di Indiana Jones o dei fumetti di Martin Mystère, così come dei cartoni di Wile E. Coyote e dell’astronave aliena di Indipendence Day, è il cruciale punto debole – una lastra, una leva, un software, una colonna - che fa crollare tutto con un minimo movimento, sia esso un palazzo, una grotta, una montagna o un’astronave.

    La colonna 79 dell’Edificio 7 si presenta con la medesima potenza di un espediente drammaturgico inatteso. Con sfrontatezza disneyana la colonna collassa, riverberando gli effetti sulle colonne più prossime, in un movimento da sud a nord. L’ondata di crolli va poi da est a ovest, risparmiando per qualche secondo la struttura perimetrale, che poi cede e fa crollare il grattacielo in modo totale e definitivo.

    Fa specie pensare che fra gli inquilini dell’Edificio 7 ci fossero istituzioni finanziarie, compagnie di assicurazione e agenzie governative top secret talmente ingenue da fidarsi di un palazzetto così vulnerabile, nel quale il cedimento di un solo pilastro era in grado di mettere in moto un crollo totale che non faceva rimanere “pietra su pietra”. Non credevano alla “cartoon physics”. Dovevano, forse?

    Per anni, chi osava mettere in questione i risultati delle frammentarie indagini sulla “terza torre” ha subito petulanti reprimende. Con il tono di chi ti dice “ora t’insegno dove abiti e nel frattempo dimostro che sei un cretino progressivo totale, me l’ha detto Occam”, i guardiani full time delle verità ammissibili ci hanno spiegato tutto e il contrario di tutto: che fra le cause del crollo c’era un grosso squarcio nel palazzo che ne aveva minato l’equilibrio, che però aveva fatto la sua porca parte anche il deposito di carburante diesel, che le conclusioni giuste erano quelle di «Popular Mechanics», anzi no, quelle della BBC. Per tenere insieme i contraddittori miti filogovernativi usavano una specie di “grammelot” tecnocratico, in modo da dire che la scienza era dalla loro parte, piena di punti fermi asseverati dalle autorità. Questi punti fermi hanno subito un crollo progressivo e totale con la disperata giravolta del NIST.

    Tutto lo zelo dilapidato a guardia del mito-bidone delle mutevoli inchieste filogovernative sull'Edificio 7 è ora sradicato e non ha ancora fatto in tempo ad adattarsi.

    Tutti gli elementi chiave propugnati a forza di insolenze dai sussiegosi travet dell’Assessorato allo Schiacciamento delle Bufale sono stati rigettati dalla stessa agenzia da loro ossequiata per anni.

    È proprio in questi momenti che vado a contemplare un fantastico pezzo di modernariato: la prima pagina del settimanale «Diario» n.37/38, anno XI, del 29 settembre 2006, con il richiamo alla sedicente “inchiesta vecchio stile” con cui il direttore Enrico Deaglio volgarizzava gli scientismi della vecchia inchiesta di «Popular Mechanics», già di suo sdraiata sulla versione dell'11/9 di Bush e Cheney, e cordialmente prefata da John McCain.
    M'illumino. Un vecchio parlamentare sardo attaccava le immaginette elettorali dei colleghi trombati alle elezioni sui bordi dello specchio. Mentre si radeva iniziava la giornata con crescente buonumore, intanto che dedicava brevi occhiate perfidelle alle loro facce condannate a sorrisi perenni e ignari del destino da trombati. Ecco che ho finalmente trovato collocazione per la rivista ormai vintage di un direttore con un destino da trombone.

    È facile prevedere che i cantori della teoria ufficiale purchessia, incuranti delle cantonate, si avvinghieranno anche alla “thermal expansion”, un modo per essere partecipi della scoperta di un fenomeno fisico unico, mai trovato prima e mai visto dopo quel giorno. Dopo averci detto che il rasoio di Occam tagliava la ricerca di soluzioni complicate, ora riterranno invece che tra le varie spiegazioni possibili di un evento è quella più astrusa ad avere maggiori possibilità di essere vera.

    Il NIST ha anche cercato di non ignorare totalmente i legittimi sospetti che ci fosse una demolizione intenzionale dell’Edificio 7, realizzata con l’uso di cariche dedicate allo scopo. Ma l'indagine su questa faccenda sembra mossa da logiche investigative singolari. In sostanza il NIST sostiene che siccome per determinare il crollo bastava il cedimento della colonna n. 79, non resterebbe da calcolare che la quantità di esplosivo necessaria a distruggere questo pilastro tanto risolutivo. La dose necessaria all'azione sarebbe stata causa di un rumore abbastanza forte da farsi sentire a distanza di centinaia di metri da lì. Dal momento che il NIST non ricomprendeva documenti che attestassero l’esistenza di un simile boato, ipso facto nessuna bomba è esplosa, per cui sono da rigettare le ipotesi di demolizione controllata.

    Davvero una strana argomentazione. Che esistesse un punto cruciale contrassegnato dalle prodigiose caratteristiche cartoon della colonna 79 potevano saperlo solo Dio e Steven Spielberg. Non certo chi chiedeva di analizzare l’ipotesi demolizione.

    È comodo pretendere di rispondere a obiezioni rese forzatamente più ridicole. Vecchia tecnica. Voodoo verbale. Hanno preso gli argomenti formulati in modo serio e solido dai critici, hanno creato una copia somigliante ma più debole, l'hanno attribuita a chi sollevava le obiezioni e l'anno colpita: buttando giù l'argomento fantoccio si abbatte anche quello vero. Nel caso di specie, identificare gli esplosivi come la prima cosa cui ricorrere per una demolizione intenzionale è una forzatura che serve a rendere l'ipotesi inverosimile. A parere degli esperti di demolizione, per i palazzi aventi struttura in acciaio il mezzo appropriato è rappresentato dalle “linear cutting charge”, usate per segare le colonne d'acciaio con un'angolazione che fa lavorare soprattutto la forza di gravità, senza chissà che boati. Non siamo più ai tempi della dinamite di Nobel. Oltretutto è assurdo pretendere che le obiezioni tendano all'ipotesi di un unica megabomba, anziché, come in altri casi di demolizioni totali, tante piccole cariche.

    Ma a parte tutto questo, le testimonianze che parlano di esplosioni sono parecchie.
    Abbiamo visto che un eminente ex del NIST, James Quintiere, che pure non prendeva in considerazione ipotesi di demolizioni controllate, ha dato poderose mazzate al metodo del NIST, specialmente in merito alle condizioni legali e ai vincoli pesanti che impedivano un’inchiesta vera e attendibile, a partire dalla mancata citazione dei testimoni.

    Una volta esclusi gli scenari reali, oggettivi e soggettivi, rimane lo scenario virtuale delle modellizzazioni. In quel mondo asettico e virtuale il NIST può finalmente dedicarsi a escludere qualsivoglia ipotesi di demolizione intenzionale. È il regno della colonna 79. Lo stesso numero che la Smorfia napoletana attribuisce a “o' mariuolo”.

    Un giornalista ha rivolto all'ispettore capo del NIST una domanda piena di buon senso, alla luce della “scoperta” della colonna su cui si basava tutto l'equilibrio del WTC7. Chiedeva se aveva significato escludere l'uso della termate, usata anche come cutting charge, magari per segare proprio lei, la fatidica colonna 79, e innescare così, senza boati, il “crollo progressivo totale”. Shyam Sunder ha replicato attingendo al suo campionario di risposte preconfezionate:
    «L'ipotesi della termate è senza fondamento e non è mai neanche arrivata a poter essere presa in esame dagli investigatori come le altre. Ciò in ragione del fatto che per fissare la termate sarebbe occorso un accesso alla colonna considerata, e inoltre per la ragione che la termate - per riuscire a compromettere la colonna - avrebbe richiesto di farla restare in contatto con la superficie verticale dell'acciaio finché si svolgeva la reazione della termate».
    Che dire? L'accesso non sarebbe un problema, con qualche ipotetica complicità, che ne so, di una società di sicurezza retta da un cugino del Commander in Chief. Quanto ai tempi, non sarebbero chissà che lunghi. Bastano pochi istanti.

    I dubbi non sono stati certo dissipati. Anzi. Rimangono tante questioni. Il NIST stesso ammette che l’evento di un crollo totale indotto da un incendio è più unico che raro.
    La demolizione intenzionale, che spiegherebbe le cose in base a fenomeni sperimentati migliaia di volte, in pratica viene negata unicamente per la supposizione che sarebbe stato complicato fare tutto ciò di nascosto. Di nascosto da chi? Magari dalla stessa società di sorveglianza che aveva messo il sistema di allarme antincendio in modalità test “per lavori di manutenzione” proprio quella mattina, guarda un po’. Che giorno, quel giorno. Ogni vicenda chiave, ogni “meme” del mito, subiva direttamente l’influenza di una qualche esercitazione, manutenzione, simulazione militare che adulterava punto per punto il luogo del delitto, e in decine di casi.

    I dubbi dunque.
    Tra gli autori delle analisi critiche troviamo l’architetto Richard Gage, l’ingegnere meccanico Anthony Szamboti, l’ingegnere strutturale Kamal Obeid, l’architetto d’interni e ricercatore sui temi del WTC7 Chris Sarns, l’ingegnere Michael Donly, il chimico e ingegnere per la certificazione di qualità Kevin Ryan.

    Una loro tavola rotonda è riportata nel sito di di «Architects and Engineers for 9/11 Truth», un movimento che raccoglie alcune centinaia di aderenti con qualifiche da addetti ai lavori, fondato da Gage e impegnato in una battaglia per la verità sull’11 settembre.

    «Gli incendi di uffici non possono fondere l’acciaio», ricorda Gage, «e il NIST non ha spiegato il mistero del ferro fuso presso il sito del World Trade Center, né ha considerato altre prove che indicano anche l’uso di cariche incendiarie alla termate per tagliare la struttura che sorreggeva i 47 piani dell’Edificio 7.»

    La presentazione del NIST, con le sue generiche parole, appariva “assurda a prima vista”, ha contestato Kevin Ryan, ed era del tutto diversa dalla versione raccontata in precedenza dalla rivista «Popular Mechanics». Nonostante il NIST abbia sostenuto di abbracciare attitudini scientifiche rispetto a teorie fra loro alternative, non ha mai risposto agli svariati inviti a discuterle, ha recriminato Ryan. Il disinteresse del NIST nei confronti di prove chimiche di nanotermate esplosiva deve essere considerata alla luce della scoperta di Ryan del fatto che il NIST ha studiato tali materiali per circa dieci anni, e ne sono esperti proprio molti degli investigatori NIST impegnati nel caso WTC. Una rivelazione molto interessante.

    Il solo modo di discutere da parte del NIST sulle cariche incendiarie è stato quello di rifiutarle, ha osservato Tony Szamboti, tanto che sono state ignorate le minute microsfere ricche di ferro ritrovate nella polvere del WTC da parte dell’USGS (l’agenzia geologica USA) e dal dottor Steven Jones. Queste potrebbero essere state generate soltanto dal metallo fuso, sostiene Szamboti. I test britannici sulla resistenza agli incendi mostrano che le strutture in acciaio sono molto più durevoli di quanto attestano le teorie del NIST sui crolli, aggiunge Szamboti. Mentre i cosiddetti “Cardington Test” britannici sono stati conservati, l’acciaio del WTC è stato distrutto.
    L'esclusione per principio dello scenario 'eretico' della demolizione indotta non può che bloccare certi tipi d’indagine. Se i test del NIST sui materiali autentici sono sostituiti da modellizzazioni virtuali - dove la fantasia ha galoppato – i risultati hanno troppe strade segnate.

    Dovremmo fare in proposito delle “domande esigenti”, ha detto Szamboti.

    La struttura di Cardington, pur priva di protezioni antincendio, sopravvisse a temperature doppie rispetto a quelle asseverate dal NIST, rammenta Chris Sarns. Il modello sugli incendi del NIST mostra degli incendi che bruciano più a lungo di quanto mostrino le foto, aggiunge Sarns. Dunque il NIST congettura molto ma spiega poco: nemmeno come una colonna che cede possa abbattere quelle a essa vicine.

    La soluzione del NIST appare costruita per compiacere il suo cliente, ha detto Kamal Obeid, mentre gli ingegneri strutturali indipendenti avranno problemi lungo ogni passo del complesso meccanismo di collasso congetturato dal NIST. Obeid ritiene che le connessioni avrebbero ceduto prima che le sezioni che crollavano potessero abbattere le pesanti colonne del nucleo dell’edificio.
    «Mentre i modelli computerizzati del NIST mostrano drammatiche distorsioni nei crolli delle più sottili colonne del perimetro, i video del vero edificio non mostrano nessun imbarcamento della struttura esterna che sia causato dai piani che invece il NIST afferma stiano crollando invisibilmente all’interno», hanno notato Obeid e Szamboti. Nel virtuale ci sono dunque immagini diverse da quelle realmente osservate. Forse è anche per questo che sono piaciute al mainstream informativo.

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    Fonte dell'immagine: NIST

    In contrasto con gli effetti naturali e organici degli incendi ricordati da Gage (deformazioni graduali e crolli asimmetrici che seguono il sentiero della minor resistenza) il crollo visibile del WTC, fa notare Donly, è proceduto non lontano dalla velocità di caduta libera, senza nessuna apparente resistenza della struttura in acciaio. Molte colonne devono essere state tagliate in simultanea per far precipitare un edificio diritto verso il basso. Il rapporto FEMA 403, all’Appendice C, raccomandava ulteriori ricerche sulle prove di acciaio fuso che potevano avere correlazioni con la causa del crollo, ha commentato Donly, ma il NIST non prende in considerazione questa informazione.

    Gage ha chiesto al NIST di concedere a dei ricercatori indipendenti le migliaia di foto e video dei suoi archivi sul WTC.

    Come nel caso delle Torri Gemelle, non è inoltre spiegata la dinamica del crollo. Anche stavolta il rapporto ufficiale si ferma all'inizio del collasso senza provare a spiegare come la struttura esterna sia crollata praticamente a velocità di caduta libera attraverso il percorso di maggior resistenza (la struttura stessa).

    C’è chi si accontenta di mettere sullo stesso piano i dati sperimentali e le speculazioni, senza tuttavia rilevare l’importante differenza che corre fra gli uni e le altre. Anche se sappiamo che gran parte delle prove fisiche è stata criminalmente spoliata.

    Servirebbero indagini più approfondite e più indipendenti. Stiamo pur sempre parlando della vicenda imprescindibile che ha segnato l’esordio del secolo.

    Fonte: http://pino-cabras.blogspot.com
     
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  3. AdamClayton
     
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    “IL MITO DELL’11 SETTEMBRE” – HOLLYWOOD DOCET

    Dopo "Il concetto di Complotto", "Bias di Conferma" e "Armi di Banalizzazione di Massa" presentiamo un quarto brano tratto dal libro di Roberto Quaglia "Il Mito dell’11 Settembre e l’Opzione Dottor Stranamore". Per i lettori di Genova ricordiamo che oggi l'autore sarà in città per un incontro di presentazione del libro. N.d.r.

    È cosa nota e risaputa che Hollywood interagisca costantemente col Pentagono per la realizzazione dei propri film. Il Pentagono è generalmente ben lieto di mettere a disposizione le proprie risorse, purché, certo, il copione sia di suo gradimento. Molto spesso, esso interviene concretamente sulle sceneggiature, chiedendo modifiche ed adattamenti per rendere una pellicola adatta alle proprie esigenze. La manipolazione non è pesante, tuttavia è costante.

    Sono in realtà abbastanza rari i film americani che parlino di faccende militari e siano stati realizzati senza alcun aiuto ed approvazione da parte del Pentagono, ma chissà perché sono ben distinguibili. Il dottor Stra namore era uno di questi. Altri film che non ricorsero all’aiuto del Pen tagono furono Apocalypse Now, Comma 22, Forrest Gump, Ufficiale e gentiluomo, Platoon e Il sergente Bilko.

    Produzioni cinematografiche sulle quali, al contrario, il Pentagono è sensibilmente intervenuto sono, ad esempio, Airforce One ed Independence Day. Se ci pensate bene, entrambi i film trattano temi che si sono poi rivelati utili nella «corretta interpretazione» di America under Attack. In primo luogo, il presidente degli Stati Uniti affronta in prima persona e sconfigge il nemico, assumendosi la responsabilità di decidere, agire e combattere per tutti. Il Bush della Crociata contro l’Asse del Male, il Bush che ripete ad oltranza ad amici ed alleati lo slogan hollywoodiano O siete con noi o siete contro di noi, è perfettamente assimilabile all’immagine del presidente tratteggiata nei film appena citati.

    Il grosso della gente ha bene presente Independence Day, spesso addirittura in Dolby Surround 5.1, e così se in Independence Day il presidente degli Stati Uniti unifica il mondo nella lotta contro l’Orribile Nemico Comune, e questo processo si attua attraverso un crescendo di volume di fuoco ed esplosioni, cosa c’è di strano se la stessa cosa succede anche nel mondo reale?

    Tra l’altro, Independence Day ha fornito anche una ottima anticipazione dei temi principali dell’11 settembre, e cioè la traumatizzante distruzione di importanti simboli americani. I crudelissimi alieni polverizzano con il loro raggio della morte addirittura la Casa Bianca, il Congresso e l’Empire State Building. Viene però a questo riguardo da chiedersi come mai il regista optò in questo caso per la distruzione di un simbolo a modo suo secondario, l’Empire State Building, risparmiando – se non ricordo male – un simbolo analogo, ma infinitamente più presente nell’immaginario collettivo, ovvero le due Torri Gemelle. La domanda può sembrare gratuita, ma non è sciocca come sembra. In una produzione cinematografica importante come quel la di Independence Day, il livello di perfezionismo è altissimo. Se il tema è demolire spettacolarmente ciò che di più simbolico esiste a New York, dopo la Statua della Libertà vengono le Torri Gemelle e non l’Empire State Building. Infatti, l’11 settembre i «terroristi» mica hanno scelto per il loro attentato l’Empire State Building; essi sapevano bene che le Torri Gemelle erano un simbolo infinitamente più significativo.



    Ma perché non ci si è giocati la distruzione di tale simbolo in Indepen dence Day? Questo piccolo mistero si chiarisce se, con uno sforzo d’immaginazione, consideriamo in tutto e per tutto l’11 settembre come il sequel di Independence Day. Nel quadro di tale sconcertante ipotesi, è ovvio che le Torri sarebbero state risparmiate in Independence Day al fine di non «bruciarsele» per l’opera principale, America under Attack, che sarebbe di certo entrata nella storia del cinema se invece non si fosse preteso che si trattasse di un genuino fatto di cronaca. Se si fossero viste le Torri Gemelle crollare realisticamente già in Independence Day, l’esperienza di rivederle crollare pochi anni dopo in televisione avrebbe suggerito l’impressione di assistere alla ripresa di un vecchio film, e lo shock avrebbe potuto essere di molto inferiore. Se questa ipotesi trovasse corrispondenze nella realtà, vorrebbe dire che i fatti dell’11 settembre sarebbero stati messi in preventivo da qualcuno già parecchi anni prima, assai di più di quanto comunemente si ritenga.

    Per la produzione di Airforce One, il Pentagono ha messo a disposizione una notevole quantità di elicotteri ed aerei da caccia. Lo spettatore crede, guardando il film, che Harrison Ford sia davvero il presidente degli Stati Uniti; ciò che invece viene installato nella sua mente è la credenza che il presidente degli Stati Uniti possa essere Harrison Ford. Sembra la stessa cosa, ma non lo è. E così, quando George W. Bush l’11 settembre vola in piena emergenza, sull’Air Force One, per i cieli dell’America senza una chiara destinazione, braccato da terroristi apparentemente onnipotenti – almeno ad ascoltare le cronache dei media – il telespettatore riconosce, pur senza prenderne coscienza, la situazione in atto, e George W. Bush si trasforma nella sua mente in una specie di Harrison Ford. E non a caso, pochi giorni dopo, i sondaggi in America segnano un aumento della popolarità di Bush sino a livelli mai goduti da alcun presidente in alcuna democrazia. Per riscontrare analoghi picchi di consenso, dobbiamo riportare alla memoria scene tratte da antichi documentari in bianco e nero, nei quali il consenso pubblico era quasi unanime... ma se non ricordo male non si trattava esattamente di regimi democratici.



    Nel settembre 2001 era pronto per la distribuzione Anthrax, un film sul tema di un’epidemia di antrace in America, il primo ad occuparsi di questo batterio che quasi nessuno conosceva. Ma d’un tratto le lettere all’antrace seminarono terrore in tutti gli Stati Uniti (in anticipo rispetto alle attese?) ed il film non venne messo in circolazione, anche se in seguito fu venduto in DVD.


    [La copertina del DVD del film Anthrax (2001).]

    Abbiamo già in precedenza accennato a Pearl Harbour, probabilmente il più evidente e sfacciato esempio di film propedeutico ai fatti dell’11 settembre. Ma, in misura maggiore o minore, gran parte della produzione hollywoodiana contiene elementi che nel loro piccolo contribuiscono all’intento. Anche la rappresentazione di crisi naturali, come in Armageddon (la storia di un asteroide incombente sulla Terra), serve allo stesso scopo, che è quello di inculcare nella gente l’idea che grossi problemi hanno di regola solo grandi soluzioni militari. In Armageddon ci si cura di riabilitare le bombe nucleari, poiché è un’esplosione nucleare a salvare la Terra distruggendo l’asteroide che la minaccia.

    In Bad Company (2002), con Anthony Hopkins, invece, veniamo abituati all’idea che valigette contenenti bombe nucleari tascabili capitino con facilità nelle mani di terroristi folli, i quali ad altro non ambiscono che a farle detonare in qualche grande città americana, per il solo motivo del loro mal spiegato odio verso l’America. Ovviamente, l’unica nostra difesa, che forse riuscirà a salvarci, è la CIA.

    Ed effettivamente i terroristi riescono a fare scoppiare una bomba atomica nel migliore The Sum of All Fears (2002), distruggendo Baltimora. Una città qualunque. La prossima potrebbe essere la tua. Molta più gente vi si può identificare rispetto a città come New York o Washington. Tuttavia (complice Tom Clancy, autore del soggetto) gli arabi per una volta non c’entrano.

    007 Casino Royale (2006) ci propone una versione geneticamente modificata di James Bond. Il mitico 007 è diventato biondo, muscoloso e soprattutto antipatico. Dopo quarant’anni di colpo ogni traccia di ironia è scomparsa dal suo volto, dal quale non traspare più alcuna intelligenza, così come stile, eleganza e savoir-faire latitano dal suo repertorio. Il personaggio non è più amabile affatto, risulta anzi detestabile, in perfetta sintonia con la mutata percezione che la gente ha dei governi d’Inghilterra ed America. La «rambizzazione» di 007 è perfezionata dalla sua ossessione per i terroristi e la violazione delle più importanti regole del diritto internazionale (fa saltare in aria un’ambasciata dopo avervi appena commesso un assassinio). Per la prima volta 007 viene anche denudato integralmente dal cattivo di turno il quale poi a lungo lo tortura nei genitali in perfetto stile Abu Ghraib. Dobbiamo abituarci all’idea che le torture ai genitali sono tutto sommato una cosa normale, una sorta di prova di coraggio, guardate come ne è uscito bene James Bond! Un paio di giorni dopo le torture già ce l’ha di nuovo duro con la bella Eva Green, sintomo che le torture ai genitali sono in realtà afrodisiache e ci fanno risparmiare sul Viagra.

    Team America (2004) è un eccellente film a pupazzi animati creato dagli stessi irriverenti autori del cartone animato South Park. Si presenta come un’opera trasgressiva, rigorosamente politically incorrect, intrisa di oscenità e turpiloquio gratuiti, che dileggia l’americana lotta al terrore. Tuttavia, pur irridendola, la legittima, alimentando il mito dell’esistenza di un net work del terrore. Di fatto, il film si configura come un’astuta operazione di marketing del mito del terrore internazionale indirizzata alla frazione della popolazione di indole protestataria. Impressione ribadita nel 2006 in un episodio del cartone animato South Park: The Mystery of the Urinal Turd. Alle fine del quale scopriamo che la «teoria del complotto» è stata messa in piedi nientemeno che dalla Casa Bianca stessa allo scopo di appagare quella porzione di popolazione mentalmente ritardata che ha bisogno di credere in sciocchezze simili. Di fronte alla marea montante di un’opinione pubblica che non crede più alla versione governativa dei fatti, gli autori di South Park mettono tutta la loro intelligenza al servizio del pubblico lavaggio del cervello, creando narrazioni d’apparenza scandalosa, ma che nella sostanza tirano l’acqua al mulino degli interessi governativi. Una manipolazione tra le più raffinate e brillanti. Vivamente consigliata.

    Una delle opere più inquietanti e misteriose è il noto The Day After Tomorrow (2004), colossal ecocatastrofista diretto da Roland Em me rich, lo stesso regista di Independence Day, che segue di pochi mesi la diffusione, da parte del Pentagono, di uno studio contenente la previsione di catastrofi ambientali di elevata portata negli anni e decenni a venire, dall’arresto della Corrente del Golfo e dalla conseguente riduzione a condizioni siberiane dell’Europa Occidentale in poi. Perché il Pentagono ci tiene così tanto a far sapere che «l’effetto serra è peggio di Al Qaeda»?
    Le risposte possibili sono molteplici. Ottimisti e fiduciosi penseranno alla sincera preoccupazione del Pentagono per le sorti dell’umanità. Forse, dopotutto, i militari americani pensano davvero di avere la responsabilità ed eventualmente i mezzi per salvare il mondo da qualsiasi minaccia ne metta in discussione la sopravvivenza. Per esempio, l’effetto serra. Oppure no. Persone più diffidenti ipotizzeranno finalità ultime assai diverse in questo improvviso neoambientalismo da parte delle forze armate più potenti del mondo. Solo il tempo ci dirà quale sia l’interpretazione più corretta.

    Tuttavia, è assai inquietante scoprire che The Day After Tomorrow si è poi drammaticamente rivelato come un ennesimo e sconcertante trailer di avvenimenti in agguato. Le più spettacolari catastrofi rappresentate sono lo tsunami che colpisce New York e l’uragano che devasta Los Angeles. Ad un anno circa dall’uscita del film uno tsunami distugge Sumatra e l’anno successivo un uragano devasta New Orleans. Sarà anche una coincidenza, però...

    In 28 Days Later (2002), veniamo abituati al concetto che terribili pestilenze ci colpiranno per una fuga accidentale, dai laboratori che compiono ricerche sulle armi batteriologiche, di scimmie infettate da mostruosi virus e che in tale giorno del giudizio gli uomini superstiti non si comporteranno necessariamente bene tra loro. All’indomani dell’uragano Katrina, c’è stata paura per un centro studi nell’area di New Orleans dove si trovavano cinquemila scimmie cui erano state inoculate malattie infettive e che avrebbero potuto fuggire. Stavolta è andata bene.

    Un discorso a parte merita l’ultimo episodio della saga Star Wars: Episode III, La vendetta dei Sith (2005). Il film si rivela come un’allegoria perfetta di quanto sta accadendo in America. Negli Stati Uniti ha destato polemiche il fatto che ad un certo punto Darth Vader pronunci la frase «Se non sei con me sei mio nemico», che riecheggia quella di Bush all’indomani dell11 settembre. George Lucas ha spiegato di essere stato interessato a raccontare come una democrazia possa evolversi in una dittatura. Quindi, in un certo senso, il film può essere visto come un monito agli americani su ciò che potrebbe loro accadere; in un altro senso, esso «prepara» gli americani (e – ahinoi – non solo gli americani) a ciò che li aspetta.

    Una delle caratteristiche più affascinanti delle armi di banalizzazione di massa è che esse assolvono anche alla funzione di «preparare» le menti a mutate condizioni di vita. Quando una condizione muta di colpo, noi ce ne accorgiamo, tanto che spesso si parla anche di «trauma del cambiamento». Mutamenti traumatici del nostro stile di vita suscitano la nostra opposizione. L’essere umano di norma rifiuta novità che ne scombussolino le abitudini, gli automatismi ed in senso più ampio il modo di percepire la normalità. Se il fenomeno riguarda grandi masse, si possono verificare resistenze e addirittura ribellioni. Le armi di banalizzazione di massa permettono di adattare progressivamente un popolo al cambiamento che dovrà assorbire, in un modo utile ad evitare – o a contenere – l’eventuale opposizione.

    Un giorno stavo guidando l’auto su un autostrada in Germania, dove non ci sono limiti di velocità. Accelerai improvvisamente, suscitando la protesta del passeggero accanto a me, che si era spaventato. Dovetti quindi tornare ad un andatura contenuta. Poco dopo, accelerai di nuovo, ma questa volta lo feci progressivamente, senza scatti improvvisi. Dopo un po’, mi ritrovai a guidare alla stessa velocità che in precedenza aveva suscitato la protesta, ma adesso il passeggero era tranquillo e non si lamentava. Lo avevo abituato per gradi.
    Succede anche alle rane. Se gettate una rana in una pentola di acqua bollente essa ne balzerà fuori all’istante. Se invece calate una rana in una pentola di acqua fredda e riscaldate l’acqua lentamente, la rana rimarrà oziosamente al suo posto e si ritroverà lessa. Le armi di banalizzazione di massa fanno lo stesso con noi. Ci cuociono a fuoco lento e noi non saltiamo fuori dalla pentola. Non riusciamo a spegnere la televisione. Ci abituano per gradi agli scenari che ci attendono, così che la protesta, la ribellione ed il disordine sociale siano minimi quando tali scenari diventeranno realtà.

    Inoltre, esse contaminano la nostra percezione dei problemi del mondo con la stessa patina di irrealtà che i nostri sensi assegnano all’intrattenimento audiovisivo. In quest’abbraccio diabolico tra realtà e rappresentazione si attenua l’abilità delle nostre menti di distinguere nettamente il vero dal falso. Smarriti e confusi in questa nebbia semantica ci ritroviamo incapaci a raccontare a noi stessi e agli altri il mondo senza attingere esempi e metafore dal minestrone audiovisivo che macera nel profondo delle nostre zucche. A tal modo, per quanto noi ci si sforzi di mettere a fuoco la realtà delle cose, alla fin della fiera ci ritroviamo sempre a discutere del film che più assomiglia a ciò che avremmo tanto voluto dire con parole nostre. Tutti i potenziali dissidenti e rivoluzionari si ritrovano così volenti o nolenti impelagati in sterili diatribe tra cinefili anziché in effettive discussioni nel merito. Se non ci credete, provate voi stessi coi vostri amici ad affrontare discorsi di questo tipo e fate attenzione a quanti minuti passano prima che vi ritroviate ineluttabilmente a discutere di cinema (o di televisione). Il risvolto più tipico è che il vostro amico ad un certo punto esclami: «È proprio come in Matrix!» Ed a voi altro non rimarrà che sussurrare sconsolati: «No. È proprio come spiegato nel libro di Roberto.»

    Come difendersi da queste armi? A livello di massa, non c’è alcuna difesa. Gustave Le Bon ha già detto in merito alla psicologia delle masse tutto quello che c’era da dire più di cento anni fa. Anche a livello individuale non c’è poi troppa difesa, ma possiamo cercare di contenere i danni. Tentare di mantenere un livello di approccio analitico ogni volta che si assiste ad un fenomeno o ad uno spettacolo può eventualmente giovare. Ma la miglior ricetta per non farsi fregare troppo è probabilmente la seguente:

    Non fidatevi mai delle risposte immediate a domande complesse.

    Le risposte sono il trucco con cui si neutralizza la domanda (questo vale anche per i migliori scienziati).
    Tutto ha una sua risposta – ma, per migliorare il grado della propria comprensione delle cose, la risposta va costantemente cercata, in un certo senso mai effettivamente trovata. Un po’ di zen nella vita non guasta. E so prattutto, guai ad accettare come nostre le risposte che qualcuno che non ci conosce, ci porge dal teleschermo con ipocrita benevolenza su un piatto d’argento, cercando di sedurci, magari con un sorrisino mellifluo oppure, peggio, con l’aria rispettabile, seria e compunta di chi certamente sta dicendo la verità.
    Né dovrebbe il lettore accorto destinare maggiore fiducia a quanto io stesso ho scritto in questo libro.
    In un mondo allucinatorio come quello in cui viviamo, tutto dovrebbe essere costantemente messo in dubbio da chi desidera avvicinarsi alla verità più probabile, e quindi, non fosse che per una questione di principio, anche questo stesso libro.

    Abbiate pazienza se anche io, in questo capitolo e soprattutto nel precedente, ho banalizzato argomenti importanti che meriterebbero maggior respiro. Tuttavia, se non altro, concedetemi l’attenuante che in questo caso di banalizzazione di massa non si è di certo trattato, dato che è assai improbabile che qualcosa che assomigli alle masse finisca per leggermi. Pren diamo ed archiviamo quindi questo paio di capitoli per ciò che sono, ovvero niente più che umili brandelli di banalizzazione per pochi intimi. Perché i miei venticinque lettori sono, per certo, in numero assai minore dei venticinque lettori del buon vecchio autore de I Promessi Sposi. Eppure entrambi parliamo della peste per far effetto sul nostro pubblico.

    Roberto Quaglia

    http://www.mito11settembre.it
    http://www.robertoquaglia.com
     
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  5. AdamClayton
     
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    11/9 e dintorni, i nuovi tabù francesi

    Un dibattito sull’11 settembre 2001, sette anni dopo? Il giornalismo di oggi non lo può tollerare.

    Disobbedisci al tabù? E io ti licenzio in tronco, parbleu!

    Hai solo il tempo di portarti via lo scatolone con le tue robettine, come i mesti neo-disoccupati della Lehman Brothers. Non importa se la tua TV è decapitata. È successo a un paio di giornalisti di «France 24», la “CNN francese”. Non due giornalisti qualsiasi, come vedremo.

    I due sono Grégoire Deniau, direttore dell’informazione di «France 24», e Bertrand Coq, redattore capo della stessa rete. In Italia i loro nomi non dicono molto, ma oltralpe sono noti come autori di grandi inchieste, eccellenti inviati di guerra, cronisti capaci di indipendenza. Entrambi hanno vinto il premio Albert Londres, una sorta di “Pulitzer francese”.

    La loro credibilità ha contribuito al lancio di «France 24», l’emittente internazionale tanto voluta dall’allora presidente Jacques Chirac, finché, nel febbraio 2008, Christine Ockrent, un’altra vecchia volpe del giornalismo transalpino, non è diventata amministratrice delegata di «France Monde», la holding che controlla «France 24» e altri canali.

    Si dà il caso però che Christine Ockrent sia anche moglie del ministro degli esteri francese Bernard Kouchner, con il quale condivide un forte slancio mirante a riportare Parigi nell’ovile della Washington neoconservatrice.

    Lo scorso giugno Ockrent era anche presente all’annuale riunione del gruppo Bilderberg, la riservatissima conferenza che riunisce la ‘crème de la crème’ delle classi dirigenti che dominano le due sponde dell’Atlantico.

    Il nuovo corso dell’Eliseo riconverte totalmente le autonomie praticate per decenni da De Gaulle, Mitterrand e Chirac. Gli intellettuali organici dell’era Sarkozy, come la Ockrent, si adeguano alla nuova missione: riallineare l’informazione su onde più affini alla “rivoluzione neocon” d’oltreoceano.

    La posizione di Deniau e Coq traballava già prima del dibattito televisivo incriminato. Non tanto perché sulla redazione incombesse ormai una vera primadonna (per anni mezzobusto del tg serale), quanto perché da parte loro, anni fa, erano giunti grossi dispiaceri a carico del dottor Kouchner. Molto grossi.

    Coq in particolare nel 2000 aveva scritto “Les tribulations de Bernard K. en Yougoslavie ou l’imposture humanitaire”, un libro durissimo che smascherava l’attuale inquilino del Quai d’Orsay, visto come consapevole strumento di un progetto di dominio statunitense sui Balcani, dentro un disegno ad ampio spettro: lui, Kouchner, a coprire il campo della cosiddetta “ingerenza umanitaria”; l’UCK e gli altri tagliagole jihadisti a fare invece il lavoro sporco (erano gli stessi anni in cui Osa-ma bin La-den esibiva un passaporto bosniaco con i timbri a posto).

    Il pretesto per mandare via i due giornalisti di punta è stato il dibattito sull’11 settembre. Inutile cercare le immagini della tavola rotonda nell’archivio del sito di «France 24». A differenza di altre trasmissioni, non se ne conserva traccia. Si può però trovare su altri siti. Tra l’altro, non è stato nemmeno un dibattito alla pari. I difensori delle versioni ufficiali dell’11/9 erano quattro, il critico solo uno, continuamente interrotto dagli altri quattro e anche da Sylvain Attal, conduttore del programma. Il titolo della trasmissione era a sua volta molto sbilanciato, e non certo a sfavore della versione ufficiale: “11/9, il mito del complotto”. Attal aveva perfino esordito così: «Qui non si tratta di equiparare le ‘teorie del complotto’ al rapporto della Commissione d’inchiesta».

    Eppure, niente. Non poteva bastare. I tabù non si profanano, e basta.

    L’editore ha lamentato che il dibattito era stato inserito a sua insaputa. Non si può. «Colpa professionale» è la sommaria giustificazione ufficiale con cui è scattato il licenziamento in tronco di Deniau e Coq. I passi di "Bernard K." saranno ora più rilassati. E anche le corsettine di Sarkozy fuori dell’Eliseo saranno più distese, lungo un panorama mediatico sempre più ‘normalizzato’.

    La prima grande voce francese critica sul racconto dell’11/9, Thierry Meyssan, vive ormai esule in Libano.

    Negli anni di Chirac, pur bersagliato da critiche e inchieste feroci di Meyssan, il presidente in persona aveva nondimeno assicurato un’alta protezione al giornalista, già soggetto a minacce molto concrete. La ‘liberté’, se è vera, tutela i dissidenti. Chirac ha mostrato di credere a un principio fondante della ‘République’. Meyssan non ha mancato di esprimergli gratitudine.

    Con Sarkozy cambia tutto. Nessuna protezione per il fondatore della «Rete Voltaire», anzi. I messaggi che riceve sono di segno opposto. Meyssan non è al sicuro in nessun paese NATO. Il termine ‘dissidente’, con tutto il suo sapore da Cecoslovacchia anni settanta, è da rispolverare qui ed ora, in Occidente. I porti sicuri diminuiscono.

    Esagero, forse? Può darsi. Ma i segnali, solo per rimanere al caso francese, sono pesanti e congruenti. Prendete per esempio l’attore e autore satirico Jean-Marie Bigard. Il 7 settembre 2008, durante una trasmissione radio a «Europe 1», ha argomentato contro la versione ufficiale dell’11/9, citando film, documentari, libri, tesi di specialisti. Dichiarazioni insomma non “pour parler”, ma legate a un prolungato ed evidente percorso di apprendimento.

    Apriti cielo! La fustigazione dei media è stata così univoca e spietata, a partire dal “progressista” «Libération» (proprietà Rotschild), che appena il 9 settembre Bigard dichiarava contrito alle agenzie: «chiedo scusa a tutti per quanto ho detto venerdì durante la trasmissione di Laurent Ruquier a “Europe 1”, non parlerò mai più degli eventi dell’11 settembre; non esprimerò mai più dei dubbi, sono stato trattato da revisionista, cosa che evidentemente io non sono». Un tipico cerimoniale di autocritica sotto pressione.

    Poi Bigard è stato capace di venir meno alla promessa, per fortuna della libertà di parola, ma i cannoni sono sempre puntati contro chi manifesta il Grande Dubbio dell’11/9.

    Qualche mese fa anche l’attrice francese Marion Cotillard, premio Oscar 2008, aveva dovuto faticare oltremisura per contestualizzare le sue frasi scettiche sull’11/9 “ufficiale”.

    Il brutale licenziamento di Coq e Deniau non è stato però l’unico caso eclatante della resa dei conti mediatica in corso a Parigi. Il 12 agosto 2008 il benservito è toccato al giornalista Richard Labévière, uno specialista di Medio Oriente per la rete RFI, un’altra emittente del polo televisivo spadroneggiato da Christine Ockrent. Anche qui il licenziamento in tronco ha trovato una giustificazione occasionale superbamente pretestuosa: l’accusa a Labévière è di non aver avvisato la direzione della radio dell’intervista al presidente siriano Bashar al-Assad registrata a Damasco e trasmessa il 9 luglio da TV5 e il 10 luglio da RFI, pochi giorni prima della visita ufficiale di al-Assad in Francia su invito di Sarkozy.

    Labévière a suo tempo era stato anche autore di uno scoop clamoroso, assieme alla giornalista Alexandra Richard di «Le Figaro». Rivelò infatti che appena due mesi prima dei mega-attentati sul suolo USA, dal 4 al 14 luglio 2001, Osa-ma bin La-den, gravemente ammalato, sarebbe stato curato in un reparto VIP dell’ospedale americano di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. Durante il soggiorno in ospedale, oltre alle visite di molti maggiorenti sauditi, Osa-ma avrebbe ricevuto anche quella del rappresentante locale della CIA. Una notizia bomba, in totale controtendenza rispetto alla lettura del ruolo di al-Qa-‘ida nell’11/9. Una notizia cui la Francia di Chirac dava segno di credere. Altri tempi.

    Richard Labévière era uno di quegli ostinati cronisti che quando parlavano della capitale di Israele dicevano ancora Tel Aviv e non Gerusalemme, ricevendo in cambio pubbliche reprimende dell’ambasciatore israeliano, di solito efficaci per farlo spostare da un programma visibile a uno meno visibile. Fino al licenziamento vero e proprio, stavolta per l’intervista al presidente siriano. «Colpa professionale», anche in questo caso.

    Sui media francesi, per settimane, silenzio assoluto sulla notizia.

    Tornando ancora indietro, ma non di molto, a luglio 2008 era stato licenziato su due piedi Maurice Sinet, in arte Siné, un disegnatore e autore di satira. Siné ha 80 anni, e ha una ben nota e lunghissima carriera di vignette satiriche. Le sanzioni però arrivano oggi, guarda un po’. Sul settimanale satirico «Charlie Hebdo» (lo stesso che aveva ristampato in nome della libertà di espressione le vignette su Maometto del danese «Jylladen Posten») Siné aveva pubblicato una vignetta su Jean Sarkozy, figlio del Presidente francese. La caricatura satireggiava su una presunta conversione del giovane rampollo all’ebraismo. Il direttore, travolto dalla canea dei media che parlavano di “antisemitismo”, lo ha cacciato ‘ad nutum’.

    Oggi l’ottuagenario vignettista ha ancora la mirabolante energia per lanciare a tamburo battente una nuova rivista satirica, «Siné Hebdo».

    Ma il messaggio è arrivato forte e chiaro a chi ottantenne non è, e deve tenersi caro il posto in redazione.

    Nei media della stagione sarkozyana il cerchio si chiude con forza.

    L’azionista di riferimento di TF1 è Martin Bouygues, un intimo di Sarkozy (è anche padrino del figlio). Il patron della catena M6 è Nicolas de Tavernost, meno intimo, ma comunque schierato. Sul digitale terrestre investono i miliardari vicinissimi a Sarko: il finanziere Vincent Bolloré e Arnaud Lagardère. Quale sia il concetto di indipendenza giornalistica per il signor Lagardère, si è pregiato di comunicarlo egli stesso: «Che cos’è l’indipendenza in materia di stampa? È aria fritta. Prima di sapere se sono indipendenti, i giornalisti farebbero meglio a sapere se il loro giornale è perenne». [«Le Monde Diplomatique»]

    Queste sono le tendenze in atto sui media in Francia, un paese che pure ha prodotto straordinari anticorpi contro l’omologazione informativa angloamericana.

    La portata delle crisi internazionali in corso, nel secolo inaugurato dall’Evento dell’11 settembre, ammette sempre meno letture dissonanti agli occhi delle classi dirigenti e del loro specchio mediatico.

    Se la stagione delle censure e degli ostracismi si accelera impetuosamente persino in Francia, l’allarme deve essere massimo per tutti gli altri luoghi che hanno generato meno anticorpi, come l’Italia.

    Il crudo monito di Lagardère, al di là del suo uso intimidatorio, contiene una verità: la garanzia dell’indipendenza informativa è l’esistenza di una solida base organizzativa del medium di massa utilizzato.

    Pino Cabras
     
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  6. AdamClayton
     
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    Meyssan: Inquietanti rivelazioni di un dissidente
    Thierry Meyssan: «Si j’avais plié, je n’aurais pas eu à partir»
    (“Se mi fossi piegato, non sarei dovuto partire”)
    13 ottobre 2008 - Intervista rilasciata a Beirut.


    Traduzione di Pino Cabras.

    La chiusura degli uffici francesi del Réseau Voltaire (“Rete Voltaire”, NdT) e l’esilio del suo presidente sollevano molti interrogativi. Alcuni commentatori vi hanno visto la fine di un avventura, altri, al contrario, nell’osservare che queste decisioni non hanno ridotto la combattività del Réseau, hanno cercato di scoprire quali fossero le motivazioni. Thierry Meyssan lo spiega qui. Meyssan descrive una Francia sottoposta al controllo dei servizi statunitensi, con un’opinione pubblica anestetizzata che non ha consapevolezza del controllo politico. Ai suoi occhi, c’era un pericolo immediato e la minaccia che lo ha costretto ad andarsene non tarderà a ricadere su altri.

    Lei ha lasciato la Francia un anno fa, nel settembre 2007. Non è un espatriato qualsiasi: è famoso in tutto il mondo come l’iniziatore del movimento che contesta la versione governativa degli attentati dell’11 settembre, il leader di un movimento anti-imperialista, e in alcuni paesi si è presentato come il principale dissidente occidentale. Perché è stato costretto all’esilio?

    Thierry Meyssan: Nel dicembre 2002, il Segretario della Difesa USA Donald Rumsfeld ha firmato la direttiva 3.600.1, volta a screditare o eliminare le personalità francesi che si opponevano alla guerra globale al terrorismo [1]. L’elenco includeva in primo luogo Jacques Chirac, poi dei grandi esponenti industriali, e in più vi figuravo io a causa del mio lavoro sull’11/9.

    Erano tre mesi prima della invasione dell’Iraq. Era l’epoca dell’isteria antifrancese a Washington. I servizi segreti francesi sono stati informati del fatto che gli omicidi erano stati subappaltati dal Pentagono al Mossad e mi misero in guardia. I miei amici ed io abbiamo cercato di metterci in contatto con gli altri bersagli. Uno degli amministratori del Réseau Voltaire era un vecchio amico di una di queste personalità. Abbiamo preso un appuntamento con questo personaggio ai primi di marzo, ma morì pochi giorni prima dell’incontro, in circostanze che sono state descritte come altamente sospette da parte degli investigatori.

    Lo Stato ha quindi reagito. Il presidente Chirac ha contattato per telefono il primo ministro israeliano e lo ha ammonito sul fatto che qualsiasi azione intrapresa non solo sul territorio francese, ma in tutta l’Unione europea, sarebbe stata considerata un atto ostile contro la Francia. In ognuno dei miei viaggi fuori dall’Unione europea, i servizi francesi contattavano i loro omologhi locali chiedendo loro di garantire la mia protezione.

    Sapevo chi è Nicolas Sarkozy [2] e sospettavo che le cose sarebbero cambiate con la sua elezione. Quando sono tornato da un viaggio per votare, il 6 maggio 2007, sono stato arrestato davanti agli altri passeggeri all’uscita dall’aereo a Orly. Dopo avermi fatto attendere a lungo in compagnia di immigrati clandestini e di trafficanti di ogni genere, un funzionario della DST (l’ex servizio segreto interno, NdT) mi ha fatto uscire dicendo: «Benvenuto in patria, signor Meyssan, un paese che presto cambierà, moltissimo». Quella sera Sarkozy fu eletto. Pochi giorni dopo era all’Eliseo e iniziava la purga.

    Durante l’estate, Nicolas Sarkozy ha visitato la famiglia negli Stati Uniti. Era accompagnato da molti collaboratori che hanno seguito il suo aereo di linea da un aereo ufficiale. Hanno discusso con l’amministrazione Bush su una serie di temi, importanti o frivoli. Mi è stato comunicato che gli statunitensi avevano chiesto che venissero prese delle misure per neutralizzarmi in base ai decreti presidenziali US 13438 e 13441 [3]. Ho pensato all’inizio che questi decreti si fondassero sul Patriot Act e non vedevo come avrebbero potuto essere attuati nel quadro del diritto francese. Mi dicevo che gli atlantisti avrebbero finito per inventare uno strumento giuridico e che dovevo meditare di prendere il largo, ma credevo di avere molto tempo davanti a me. Si è scoperto che questi decreti si fondavano sul Trading with the Enemy Act del 1917 e successivi sviluppi. In altre parole, ero ormai considerato una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti. Il Pentagono, che chiama in causa la clausola 5 del trattato NATO a partire dagli attentati del 2001, ha chiesto l’assistenza automatica dei suoi alleati. In breve, a tutti i servizi segreti degli Stati membri dell’Alleanza atlantica poteva essere chiesto di neutralizzarmi. Mi fu comunicato che si tramava qualcosa contro di me. Ho fatto le mie valigie e ho lasciato la Francia due giorni dopo.

    Per di più, il pericolo non è limitato ai paesi della NATO. Un’operazione fu organizzata contro di me nel dicembre 2007 a Caracas, sventata dalla polizia venezuelana. Nel mese di agosto 2008 ho dovuto annullare la mia partecipazione a una conferenza internazionale in Austria, dopo essere stato informato da uno Stato amico che era stata preparata un’operazione contro di me.
    Oltre a ciò, delle pressioni sono esercitate contro i miei compagni di lotta nel Medio Oriente, America Latina e in altri Stati europei. Non posso fare l’elenco senza complicare i problemi. Jürgen Cain Kulbel è stato brevemente arrestato in Germania e potrebbe esserlo di nuovo. Tecnicamente, il solo fatto usato contro di lui da parte del tribunale è il link che aveva installato sul suo sito web che rimandava a quello del Réseau Voltaire [4].

    Ha qualche prova del fatto che lei sia davvero in pericolo - come lei dice - in Francia e nei paesi della NATO?

    Thierry Meyssan: No, le liste USA sono segrete, tranne le attività finanziarie bloccate negli Stati Uniti, ma non ne ho. Ma ho delle testimonianze da parte di diversi contatti.

    La Francia è una democrazia ed è considerata la patria dei diritti umani. Questo non è il Cile sotto la dittatura di Pinochet. Che abbia dovuto lasciare il paese non è semplicemente incomprensibile, soprattutto per i cittadini francesi?

    Thierry Meyssan: Queste situazioni non sono comparabili. In Cile gli Stati Uniti avevano instaurato una dittatura militare. In Francia dispongono solo di agenti al vertice dello Stato e alla testa dei vari servizi di sicurezza. I miei concittadini dovrebbero essere più attenti alla repressione attuale che colpisce sia politici di primo piano, sia alti funzionari che giornalisti. La squadra di Nicolas Sarkozy si basa su alcuni magistrati deviati per paralizzare i suoi avversari politici e abusa del suo potere e la sua influenza per sbarazzarsi dei giornalisti che rifiutano di piegarsi.

    Guardate innanzitutto la presa di controllo dei media. Sarkozy ha messo i suoi fedelissimi alla testa dei media privati mentre purga i media di proprietà pubblica. Un anno fa, i sindacati dei giornalisti hanno fatto appello all’intervento dell’opinione pubblica [5]. Dicevano che era diventato impossibile indagare su Nicolas Sarkozy e raccontare le critiche popolari di cui è oggetto. Si preoccupavano di perdere la libertà di esprimersi nell’essere nella tenaglia tra i giudici che violavano il segreto istruttorio e, dall’altro lato, i padroni della stampa direttamente legati all’Eliseo. Nessuno gli ha creduto e ora è troppo tardi. Tutto è bloccato.
    Qualche esempio? La squadra del Presidente si è istallata a TF1 e una delle sue ex amanti vi presenta il Tg [6]. I mass media stranieri si fanno beffe di questa vicenda, ma i media francesi che l’hanno evocata sono stati condannati per “violazione della privacy”. Si tratta di un incredibile abuso della legge del 1881 sulla stampa. Ora, la corruzione e il nepotismo, che riguardano la squadra di Sarkozy, sono argomenti tabù. Il solo accostarvi ad essi, vi porta direttamente al rinvio a giudizio.

    Sarkozy ha corrotto pubblicamente una decina di editorialisti offrendo loro delle prebende [7]. Alcuni sono stati arruolati in comitati ministeriali, ossia all’Eliseo, altri sono stati nominati in commissioni bidone, dove, ridotti al rango di cortigiani, godono dei fasti della Repubblica. Luigi XIV teneva occupata la nobiltà a Versailles, Sarkozy distrae le grandi firme editoriali che dovrebbero scrutinare la sua politica occupandole con delle attività mondane e facendo scrivere loro delle relazioni che lui non legge.

    Nel frattempo, i coniugi Kouchner-Ockrent licenziano su RFI e France24 tutti coloro che resistono all’influenza degli Stati Uniti. Dopo Richard Labévière [8], un redattore capo stimato che aveva il difetto di dare la parola agli anti-atlantisti, l’ultimo in ordine di tempo è Gregoire Deniau per aver organizzato un dibattito sull’11 settembre cui aveva invitato in primo luogo Issa El-Ayoubi, vice presidente di Réseau Voltaire, e in secondo luogo Atmoh, portavoce di ReOpen911.

    Il problema non sono i giornalisti. Ce n’è di notevoli, in Francia. Sono i media. Sono già sotto controllo e la funzione di contropotere non è più garantita.

    Inoltre, quando il pubblico sente di un procedimento penale che coinvolge una personalità, non vi vede altro che un caso particolare. Ma se uno mette in prospettiva tutti questi casi, è chiaro che si traducono in una strategia.

    Su denuncia personale di Nicolas Sarkozy, alcuni giudici istruttori hanno proibito di viaggiare all’ex primo ministro Dominique de Villepin, e l’hanno costretto a pagare una cauzione smisurata e umiliante. Pur non avendo prove concrete a suo carico, il pubblico ministero lo ha rinviato a giudizio. Il caso Clearstream offre certamente a Sarkozy un modo per eliminare un rivale politico, ma non lo ha organizzato lui. Si tratta di un complotto orchestrato dal suo patrigno, l’ambasciatore Frank Wisner, attraverso uno dei suoi covi londinesi, la Hakluyt & Co [9]. L’obiettivo è quello di mandare in prigione Villepin in modo che tutti sappiano che non si può sfidare impunemente il Segretario di Stato USA al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

    Alcuni magistrati hanno perquisito la casa dell’ex direttore dei servizi d’informazione generali (“Renseignements Généraux, RG”, NdT), Yves Bertrand, per estorcergli i segreti degli uomini di Chirac. E in questi giorni, i documenti sequestrati sono miracolosamente arrivati alle redazioni parigine. I settimanali vicini al potere ne hanno pubblicato alcuni stralci. Sembra che si cerchi di far passare delle bozze, dove si enunciavano delle ipotesi, per relazioni finali che presentano conclusioni definitive. E che si cerchi di far credere che i servizi perseguitino i soli socialisti. C’è della pura e semplice manipolazione. Ogni volta che si è all’opposizione, tocca proteggersi da questa polizia politica, e ogni volta che si è al potere, si fa di tutto per procacciarsi qualche copia delle sue note. Il potere sta esercitando una pressione incredibile su questo ufficiale per farlo crollare. È davvero una cosa ipocrita. Perché allo stesso tempo, invece di essere sciolti, gli RG sono stati riorganizzati e sono stati aumentati i loro mezzi basandoli su una gestione ancora più opaca.

    Fino al capitano Paul Barril, che hanno messo in prigione per i segreti di Mitterrand. Lo hanno accusato di essere un sicario e lo hanno maltrattato così tanto da dover essere ricoverato in ospedale, prima di essere rilasciato su cauzione. A questo proposito, permettetemi di divagare sul genocidio ruandese. Barril si è difeso dagli attacchi contro di lui su questo tema mettendo in causa il Presidente Kagame. Questi ha quindi commissionato una relazione sulla partecipazione francese in questo dramma storico. Al leggerlo, si capisce che gli alti funzionari francesi, François Mitterrand e tutto il suo gabinetto nonché il governo di coabitazione nel suo complesso sarebbero responsabili del genocidio ... tranne, ovviamente, l’allora ministro del bilancio nonché portavoce del Governo, San Nicolas Sarkozy. Ciò è stupido. Ci sono state chiare responsabilità francesi, ma certamente non colpe collettive. E del resto, è impossibile capire e giudicare questo crimine, che ha fatto più di 800mila morti, senza metterlo nel suo contesto e giudicare anche le guerre nella regione dei Grandi Laghi che hanno causati in totale di più di 6 milioni di morti, e i cui responsabili non sono da cercare a Parigi, ma a Washington e Tel Aviv.

    Nel frattempo, gli atlantisti montano un caso contro Jacques Chirac, che accusano di aver organizzato, dieci anni fa, l’assassinio di un giornalista che avrebbe messo il naso nei suoi conti bancari all’estero. Il potere ha schierato mezzi stravaganti per costruire questa nuova macchinazione. Così, un magistrato ha proceduto a una perquisizione dello studio dell’avvocato di Chirac in condizioni più che discutibili. Ma a Washington, non si è perdonato a Chirac d’essersi opposto all’invasione dell’Iraq e s’inventerà di tutto per buttarlo giù.

    Io non dico che tutte queste persone siano degli angeli, ma ciò di cui sono accusate è grottesco e ricorre esclusivamente alla persecuzione politica. Non sto dicendo affatto che la Giustizia sia marcia, ma che questi casi sono stati assegnati a giudici e pubblici ministeri che prendono ordini.

    Ma coloro che gli atlantisti non possono coinvolgere in pseudo cause penali, vengono spiati. Nel giugno-luglio-agosto 2007, la sede del Réseau Voltaire a Parigi è stata posta sotto sorveglianza. Qualsiasi persona in entrata o in uscita è stata fotografata, e sono state condotte schedature che richiedono molto personale per identificare sia le une che le altre. Questo trattamento è generalizzato. Anche la casa di Ségolène Royal è stata “visitata” a più riprese dai servizi segreti, cioè illegalmente perquisita.

    Dal 1° luglio 2008, la nuova Direzione Centrale dei servizi d’informazione interni (DCRI) mette in campo in emergenza il file classificatorio EDVIGE, in violazione dei trattati internazionali, tra cui la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici. Esso scheda l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, religiose o filosofiche, l’appartenenza sindacale, la salute e le pratiche sessuali di tutti i francesi. Il DCRI non se ne sta con le mani in mano, utilizza le più recenti tecniche USA sullo studio delle “reti sociali” per mappare le vostre relazioni amichevoli, professionali e politiche.

    Non si tratta più semplicemente di singoli individui, ma dell’ambiente in cui vivono, i gruppi cui partecipano. Un ricorso è stato presentato al Consiglio di Stato da parte di SM, LDH, SAF, associazioni gay e sindacati, che possono portare forse alla cancellazione del decreto nel mese di dicembre. Nicolas Sarkozy ha sopito l’opinione pubblica dichiarando egli stesso la necessità di rivedere il decreto, ma non lo ha abrogato.

    Intanto, nel corso di questi sei mesi, si raccolgono e informatizzano dei dati. Un caso avvenuto nella regione del Rodano ha rivelato che, nonostante le dichiarazioni lenitive del Presidente, la polizia del Rodano schedava la religione dei funzionari territoriali. È un errore che rivela la portata del lavoro di intelligence in corso. È improbabile che questi dati verranno mai distrutti, anche se il giudice amministrativo lo richiedesse. Saranno semplicemente integrati nello schedario CRISTINA e classificati ‘Segreto della Difesa’. In ultima analisi, saranno utilizzati i mezzi degli ex Renseignements généraux per costruire uno schedario a vantaggio della ex DST, che è ragionevole non si occupi che di controspionaggio. Poi, nel quadro della cosiddetta cooperazione anti-terrorismo, questi dati politici saranno trasmessi ai servizi statunitensi, perché CRISTINA è stato progettato per essere compatibile con gli schedari USA.

    Ciò vi sorprende? Ma già molti dati individuali sono trasmessi agli Stati Uniti, in violazione del diritto francese e delle convenzioni europee. Ciò vale per tutto ciò che riguarda i vostri trasferimenti bancari internazionali [10] o i vostri spostamenti in aereo [11].

    La Francia è già precipitata in una forma di Stato autoritario sotto tutela statunitense. Si dice che una rana immersa in acqua tiepida portata lentamente a bollire, non reagisce al graduale cambiamento della temperatura, così che si stordisce e muore. I francesi si stanno comportando allo stesso modo. Tollerano la progressiva distruzione delle loro libertà. Hanno già superato di gran lunga la soglia del tollerabile e non reagiscono, non reagiscono più.

    Sotto l’egida degli Stati Uniti, le dittature in America Latina avevano messo in campo negli anni settanta un sistema di persecuzione degli oppositori politici denominato Plan Condor. Lei ha scritto che il sistema è stato riattivato ed esteso in tutto il mondo attraverso la NATO. Il raffronto non è esagerato?

    Thierry Meyssan: Questo non è un raffronto. È una constatazione [12]. È stato confermato da relazioni ufficiali al Parlamento e al Consiglio d’Europa [13]. Gli Stati Uniti hanno esteso verso l’Europa occidentale i metodi che avevano usato quaranta anni fa in America Latina [14]. Un’internazionale della repressione è già all’opera [15]. Centinaia di persone sono state rapite nel territorio dell’Unione europea, portate altrove e torturate. Jacques Chirac ha protetto il nostro paese da questi crimini, oggi non è più così. Il primo caso è stato identificato come quello di Mohammad As-Siddik, scomparso nel centro di Parigi il 13 marzo scorso quando la Francia doveva presentarlo a un tribunale delle Nazioni Unite [16], ma devono essercene già molti altri.
    Più di 80mila persone sono transitate nel corso degli ultimi sette anni nelle prigioni segrete della CIA e della US Navy. 26mila sono attualmente i sequestrati [17].

    Ci sono molti esempi di persone su cui incombeva la minaccia di un omicidio e che sono state trovate morte in un altro modo: suicidio, crisi cardiaca, incidente... Ha intenzione di suicidarsi? Ha problemi di salute? Rischia nei suoi spostamenti?

    Thierry Meyssan: Non sono depresso e non ho alcuna inclinazione suicida. Ho fatto degli esami medici e non ho alcuna malattia che possa causare una morte improvvisa. Faccio attenzione nei miei spostamenti e non mi muovo mai da solo.

    Quando le minacce hanno cominciato a diventare concrete, ha avuto sostegno in Francia? Ci sono organizzazioni politiche che l’hanno aiutata? Gli altri giornalisti l’hanno difesa?

    Thierry Meyssan: Nessuna organizzazione mi ha aiutato. La maggior parte dei miei “confratelli” giornalisti sono fuggiti davanti alle difficoltà. Negando la tradizione volterriana della stampa, con la scusa di non volersi pronunciare sulle polemiche a mio carico per non vedere cosa stava accadendo. È la classica scusa dei vigliacchi ogni qual volta sia in questione la libertà. Alcuni, tuttavia, mi hanno aiutato e non vado a svelarne i nomi. Parecchi tra i politici e i militari.

    Non solo coloro che avrebbero dovuto difendermi non l’hanno fatto, ma certe persone qualunque che non hanno nulla a che fare con tutto ciò hanno collaborato a una sorveglianza illegale. La banca utilizzata dal Réseau Voltaire (nella fattispecie l’agenzia Gare de l’Est del Crédit Coopératif) ci convocò per chiederci di rivelare il nome dei nostri principali donatori, cosa che ovviamente abbiamo rifiutato di fare. Abbiamo chiuso il nostro conto e aperto un’altra struttura al di fuori della zona NATO. Ma questa procedura illegale è stata estesa alla mia famiglia e ai miei compagni di lotta. Quando uno di loro incassa sul suo conto un pagamento in contanti o un trasferimento di più di 500 euro, è raggiunto dal suo banchiere, che gli chiede di giustificarne la provenienza. Per qualcuno è soffocante, per un commerciante o un lavoratore autonomo è una molestia.

    Ha lasciato la Francia mentre si evolve - lei afferma – verso un regime repressivo. Ha abbandonato il suo paese? Ha abbandonato la lotta politica?

    Thierry Meyssan: Certamente no. Al contrario. Ho lasciato la Francia per continuare la mia lotta. Gli Stati Uniti hanno tentato diversi approcci nei miei confronti: prima screditarmi e distruggermi, poi corrompermi, infine eliminarmi. Se mi fossi piegato, non sarei dovuto partire via. È perché amo la Francia e l’ideale che porta che sono partito.
    La mia situazione sembra eccezionale. Sbagliato. Sono semplicemente il primo cui questo accade. Ce ne saranno altri.

    Il suo paese le manca? Vuole tornarci?


    Thierry Meyssan: Qui sono circondato da amici, ma la Francia è la mia patria. Vi ho lasciato le mie cose. Come volete che non mi manchi?

    Traduzione di Pino Cabras
     
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  7. AdamClayton
     
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    Sull'11/9 il coraggio del PD. Quello giapponese
    di Pino Cabras




    È un politico molto determinato, il giapponese Yukihisa Fujita.

    Quest'anno ha portato in parlamento per ben tre volte la sua forte critica alle versioni ufficiali dell'11 settembre 2001, con crescente solennità e consenso.

    Il suo discorso del 22 ottobre 2008 ha fatto spellare le mani dei colleghi parlamentari, specie quelli del Minshutō, il Partito Democratico del Giappone.

    Questo partito è la principale forza di opposizione all'eterno Partito Liberaldemocratico, la Balena Bianca nipponica. Come il Partito Democratico nostrano, il Minshutō è nato dalla fusione di diverse formazioni socialiste e moderate.

    Diversamente dall'omologo italiano, tuttavia, ha una politica estera molto coraggiosa e molto ferma contro la guerra.

    La leadership del partito ha capito che smontare l'11/9 è la chiave di volta di una qualsiasi questione di pace. Perciò Fujita non è solo. Si badi, è importante. Il Minshutō non è un partitello dello zerovirgola. Ha perfino la maggioranza relativa (109 seggi su 242) alla camera alta (la Camera dei Consiglieri, o Sangiin), e da molti osservatori è ritenuto in grado di diventare alle prossime elezioni, per la prima volta, la forza trainante di un governo alternativo.

    Il fatto che un partito con queste concrete ambizioni di governo non consideri la critica all'11/9 un argomento tabù, ma un tema da approfondire perentoriamente, deve fare riflettere.

    Intorno a Fujita c'è molta attenzione e rispetto, anche da parte dei parlamentari di altri gruppi.

    In questo clima, Fujita ha buon gioco per chiedere al governo di fermare il sostegno alle operazioni militari a guida statunitense nelle quali è coinvolta anche Tokyo.

    Nel suo discorso, dopo aver presentato precisi dettagli sulle gravi perdite civili e militari in Iraq e Afghanistan, Fujita va a descrivere il dibattito sollevato al Congresso USA dalla richiesta di impeachment di Bush formulata dal democratico Dennis Kucinich, sostenuta nell'estate 2008 da una maggioranza di rappresentanti.

    Il parlamentare nipponico ha inoltre riferito delle richieste espresse dal repubblicano Ron Paul, favorevoli all'impeachment e a nuove indagini sull'11/9.

    Fujita ha dapprima sottolineato che non c'è mai stata un'indagine di polizia sulla morte di 24 cittadini giapponesi uccisi nei mega-attentati di New York, e ha quindi parlato delle domande sollevate dai familiari delle vittime dell'11/9 al cospetto del governo, rimaste senza risposta.

    La richiesta di aprire una nuova inchiesta è ampiamente sostenuta dal Partito Democratico ed è stata presentata ai membri di altri partiti.

    Yukihisa Fujita è fortemente impegnato a formare una coalizione internazionale intesa a chiedere un'inchiesta indipendente e internazionale sull'11/9 ed è in contatto con esponenti politici in Europa e negli Stati Uniti.

    Pino Cabras http://pino-cabras.blogspot.com/





    Ecco il testo dell’intervento di Fujita:

    “Nel novembre dello scorso anno ho chiesto alla Camera Superiore se il terrorismo fosse un crimine o uno strumento di guerra.

    Il primo ministro Fukuda ha dichiarato che un tipico caso di terrorismo non costituisce un crimine.

    Riguardo all’11 settembre, il Primo Ministro ha detto che gli attacchi mostravano un grande livello di capacità professionale e di pianificazione intenzionale.

    Se prendiamo questo assunto per buono, e l’11 settembre mostra le caratteristiche di essere stato ben organizzato e pianificato, dobbiamo capire chi ha organizzato l’11 settembre per riuscire a capire come rapportarci con la guerra al terrorismo.

    Voglio anche chiedere per chi e contro chi sta avendo luogo questa guerra. Per favore rispondete a queste domande con chiarezza.

    Sono passati sette anni dell’11 settembre, e il Ministero di Giustizia americano non ha ancora incriminato bin Laden.

    Sulla pagina [web] internazionale dell’FBI dei terroristi più ricercati al mondo, bin Laden appare ricercato solo come sospettato negli attentati alle ambasciate americane in Tanzania e Kenya, ma non in relazione agli attacchi terroristici dell’11 settembre.

    Dopo l’11 settembre, il governo americano ha identificato i 19 principali sospettati, ma si è poi saputo che otto di loro vivevano come normali cittadini in Medio Oriente.

    Queste contraddizioni sono state rese note dalla BBC, il servizio di informazione statale inglese.

    Nel 2002 è stato riconosciuto dal capo dell’FBI che non vi fossero valide prove, che reggessero in un tribunale, contro i 19 sospettati dell’11 settembre.

    Tutto questo però è stato il punto di inizio della guerra al terrorismo.

    Non dovrebbe il governo giapponese pretendere risposte su questi fatti fondamentali da parte del governo americano?

    Se non fosse possibile verificare questi fatti, diventa evidente che non vi siano le basi per cooperare in queste attività navali, che sono al centro del nostro dibattito.

    Non dovremmo quindi interrompere immediatamente la nostra collaborazione [con gli Statui Uniti]?

    Il governo parte dal presupposto che vi sia una giustificazione per il nostro coinvolgimento nella guerra al terrorismo, poichè 24 giapponesi sono rimasti uccisi [negli attentati].

    La guerra al terrorismo non è soltanto un problema di altri, ma è anche un problema per il popolo giapponese. Voi questo lo avete espresso ripetutamente.

    Ma in realtà il governo giapponese non ha quasi mai avuto contatti con le disperate famiglie di quelle 24 vittime degli attacchi dell’11 settembre.

    In aprile il Vice Ministro della nazione Kimura ha dichiarato davanti alla Commissione della Difesa che non abbiamo ricevuto alcune richieste da parte dei familiari delle vittime su questa materia.

    Ma io vi dico che ciascuna di quelle disgraziate famiglie che ho incontrato vuole che sia data una risposta a queste domande.

    Non è forse la responsabilità del governo giapponese di assicurarsi che queste disgraziate famiglie possono porre le loro domande e ricevere le loro risposte?

    Vi è ora la volontà di costituire una commissione di indagine?

    Voi sapete che la seguente risoluzione è stata approvata e consegnata alla Commissione dei Servizi Legali della Camera dei Deputati americana l’11 di giugno di quest’anno?

    L’articolo numero 2 della risoluzione dice: per giustificare una invasione illegale sono state create delle false minacce da parte dell’Iraq.

    Intenzionalmente, con intenti criminali, l’11 di settembre è stato usato a questo fine. I motivi per questa guerra erano falsi e artificiali.

    Il punto numero 2 della risoluzione dice: agli americani e al parlamento è stato fatto credere che l’Iraq avesse armi di distruzione di massa.

    Al punto numero 8 la risoluzione dice: in violazione del trattato delle Nazioni Unite la nazione sovrana dell’Iraq è stata invasa.

    Al punto 33 la risoluzione dice: prima dell’11 settembre furono ignorati avvisi ad alto livello sui terroristi, e le comunicazioni furono bloccate.

    Al punto 35 la risoluzione dice: vi è stata un’ostruzione nell’indagine sugli attacchi dell’11 settembre 2001.

    Tutto questo fa parte della richiesta di impeachment contro il presidente Bush.

    La risoluzione è stata presentata dal deputato Kuchinic del partito democratico. E’ stata approvata con 251 voti, compresi 24 repubblicani, contro un totale di 156 voti.

    L’ex-candidato presidenziale repubblicano Ron Paul era a favore della risoluzione.

    Questa risoluzione non sembra aver avuto risultati ulteriori, ma nel frattempo è già avvenuto un importante cambiamento negli Stati Uniti.

    Io penso che le politiche di guerra della presidenza Bush dovranno avere fine.

    Da oggi in poi il futuro richiederà dei grandi cambiamenti negli Stati Uniti. Sono segnali che la gente sente in ogni parte del mondo.

    Io voglio chiedere al primo ministro che cosa pensa di tutto questo.

    Io pretenderò di sapere esattamente quello che i familiari delle vittime dell’11 settembre, e l’innocente popolo afgano, vogliono sapere.

    Io chiederò ai tre ministri di rispondere per favore con parole loro, e non in modo burocratico.

    Qui terminano le mie domande.”

    (La traduzione è dai sottotitoli in inglese del filmato).
     
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  8. AdamClayton
     
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    No, così non va caro Barnard

    Avevo già avuto in passato più di uno scontro con Paolo Barnard, sia in Internet che alla radio, riguardo all’undici settembre, e purtroppo la stessa dinamica si è ripresentata sul nostro sito, in occasione del suo articolo "No, così non va cari studenti", da noi pubblicato di recente.

    Il fatto non sarebbe degno di nota, se non fosse lo stesso Barnard a proporsi continuamente, e a volte in maniera persino invadente, come “duro e puro” del giornalismo nazionale, eroe solitario da tutti ripudiato, solingo gladiatore in una battaglia per la Giustizia e per la Libertà che – a quanto pare – solo lui starebbe combattendo.

    Note sono le sue pubbliche lamentele sul trattamento che avrebbe ricevuto da Milena Gabanelli di Report, che Barnard non ha esitato a diffondere ai quattro venti, chiedendo – e presumo ricevendo – una forte solidarietà da parte del popolo della rete.

    (Luogocomune non appoggiò ufficialmente quella sua richiesta, in quanto ritenni che le dispute di quel tipo si possano valutare – se mai risultasse interessante farlo - solo in presenza della versione completa di ambo le parti).

    In ogni caso, sappiamo che la stessa redazione di Report non ha mai messo in dubbio le capacità professionali di Barnard, e questo ci dovrebbe bastare.

    Il problema nasce quando una persona come Barnard cerca di inserire il personale sopra il professionale, al punto da voler “colorare retroattivamente” la propria carriera alla luce di un singolo evento – come l’allontanamento da Report - o di più eventi dello stesso tipo.

    Ecco cosa scrive Barnard di sè: “Chi come me si può permettere di perdere fama, carriera, amicizie in alto, editori importanti, e le infinite serate cui mi invitavano in tutta Italia (tutto documentato) per rimanere un libero pensatore, non è un fallito. E' uno con coraggio, una tenuta fuori dal comune, e soprattutto un attaccamento all'etica come prima condizione di vita.”

    In altre parole, Barnard ci dice che nessuno lo vuole più perchè lui è “un libero pensatore”, ma in realtà questo presunto ostracismo verso di lui potrebbe anche avere delle cause diverse, molto più semplici e banali. Se infatti le cose stessero come dice lui, resta da spiegare come abbia fatto Barnard a raggiungere “fama, carriera, amicizie in alto ed editori importanti” in primo luogo. Ha forse tenuto nascosto di essere un “libero pensatore”? Ha finto di scrivere pezzi “di sistema”, e di adeguarsi alla logica del potere, pur di guadagnarsi l’accesso ai piani alti, solo magari per “venire sgamato” da qualche potente più astuto degli altri?

    O forse ha avuto una tardiva epifanìa, ed è diventato “libero pensatore” soltanto dopo la scalata ai piani alti? In fondo, lui stesso scrive: “Se prima noi (attivisti, giornalisti 'contro', giovani antagonisti, intellettuali, contestatori, altermondialisti, studenti) non ci guardiamo dentro e se non accettiamo di vedere quanto in realtà replichiamo i difetti e le ipocrisie del Sistema, se non facciamo il durissimo lavoro di pretendere da noi stessi prima di tutto l'adesione all'etica senza eccezioni, noi tutti saremo fallimentari, e facilmente manipolabili dal Sistema”.

    Sia chiaro, non ci sarebbe nulla di male se Barnard si fosse reso conto in ritardo di essere funzionale ad un sistema che credeva di combattere – meglio tardi che mai, ovviamente - ma in questo caso dovrebbe raccontare la sua storia per intero, e non solo la parte che gli fa comodo.

    Su tutto questo si inserisce un problema di fondo, nella posizione di Barnard, che rappresenta il vero motivo per cui ho scritto questo articolo (non ho nulla contro di lui personalmente, ma combatto quello che lui ideologicamente rappresenta), ed è il suo “negazionismo” aprioristico sull’ipotesi dell’autoattentato nei fatti dell’11 settembre.

    Barnard nega l’autoattentato alla radice, sostiene di essersi informato a fondo in materia, e rivendica il suo sacrosanto diritto di pensarla come vuole lui. Il problema è che non solo “la pensa come vuole lui”, ma attacca pesantemente chi invece sostiene la tesi dell’autoattentato, definendolo come chi “sta a casa col caffè a pigiare tasti”, mentre “al contrario di voi – ci dice Barnard - io ho ricercato, trovato e pubblicato le prove (fra cui inediti), gli smoking guns veri, di crimini imperialisti confronto ai quali l'11/9 è un tamponamento cittadino”.

    Benissimo. E allora parliamo di questo insignificante “tamponamento cittadino”, in seguito al quale:

    1 - L’intera mappa geopolitica del mondo è stata ridisegnata – con l‘invasione ingiustificata di Iraq e Afghanistan da parte degli americani - ponendo le condizioni per il rischio permanente di uno scontro nucleare.

    2 - E’ stata scatenata una vera e propria guerra di religione, nella quale un miliardo circa di cristiani viene costantemente spinto all’odio – altrettanto ingiustificato - verso un miliardo circa di musulmani. Parimenti, milioni e milioni di arabi sono malvisti in tutto il resto del mondo, senza averne la minima colpa.

    3 - Il prezzo del petrolio è schizzato alle stelle, favorendo in maniera vergognosa le compagnie petrolifere, e mettendo in ginocchio l’economia di dozzine di nazioni occidentali.

    4 - Oltre un milione di innocenti sono stati uccisi, in maniera cruda e premeditata, in Afghanistan e Iraq. Sono più di 4 milioni i senzatetto.

    5 - Lo stesso Iraq è stato trasformato in una landa desolata, sommersa dalla radioattività, mentre è stata cancellata ogni traccia della sua cultura millenaria.

    6 - La produzione di oppio – praticamente congelata sotto i talebani – è stata fatta ripartire a livelli mai visti prima, raggiungendo il 140% del picco massimo mai toccato dall’Afghanistan nella storia.

    7 - Nazioni sovrane come la nostra sono state obbligate a violare la propria costituzione, prendendo parte a questo genocidio mascherato da “missione di pace” e da “esportazione di democrazia”.

    8 - Con la scusa del “terrorismo” i governi di mezzo mondo hanno potuto introdurre leggi e parametri “di sicurezza” che riducono drasticamente le già risicate libertà civili dei cittadini.

    9 - Le società costuttrici di armi, insieme ai cosiddetti “contractors”, hanno letteralmente rubato centinaia di miliardi di dollari dalle casse pubbliche americane.

    10 - E infine, last but not least, tremila innocenti sono stai uccisi a sangue freddo, inizialmente, per ottenere tutto questo.

    Alla faccia del tamponamento.

    Lo ripeto, teoricamente Barnard avrebbe il pieno diritto di non credere all’autoattentato, se solo si trattasse di esprimere una “opinione” come tante altre. Ci mancherebbe. Di fatto però è lui il primo a parlare dell’obbligo del giornalista di essere informato, e i fatti oggi accertati non permettono più ad una mente onesta di arrivare a quella conclusione.

    Oggi esiste una serie di fatti accertati che portano necessariamente a concludere che l’undici settembre sia stato un autoattentato. Non sappiamo ancora in quale precisa misura, nè con la partecipazione specifica di chi, ma oggi sappiamo – e possiamo ampiamente dimostrare – che la versione ufficiale sia plateamente falsa, in molteplici occasioni.

    Messo di fronte a queste prove concrete, Barnard non ha nemmeno provato a confutarle, e si è limitato a dire: “Io ho sempre detto che la versione ufficiale fa acqua da tutte le parti, solo un mentecatto vi crede ciecamente.”

    In alte parole, Barnard vorrebbe dire che quelle non sono prove, ma solo indizi, e con questa comoda scusa evita di partecipare al coro mondiale che chiede giustizia rispetto a quei fatti criminali.

    Dopodichè si è defilato dicendo: “Ora: al lavoro, con meno enfasi, ma con la giusta meta di scoprire cosa veramente accadde l'11/9.”

    Noi il nostro lavoro lo abbiamo fatto, Barnard, per cinque anni, con tanta umiltà e senza enfasi. Il tuo dov’è?

    I nostri lavori si chiamano Loose Change, Inganno Globale, Painful Questions, Confronting the Evidence, Il Nuovo Secolo Americano, e mille altri. I tuoi come si chiamano?

    Dove sono le tue “indagini scomode” che osano disturbare i potenti, a punto da volerti escluso dalla professione tout court? Dove sono gli “smoking guns” che dici di saper trovare, quando non riesci nemmeno a riconoscere che l’intero Building 7 è uno smoking gun – letteralmente – grosso come una casa?

    Oppure, se proprio vuoi sostenere la versione ufficiale, dove sono i tuoi lavori che smontano analiticamente, punto per punto, tutto quanto contenuto nei nostri?

    La cosa curiosa è che la posizione di Barnard sull’undici settembre è molto simile a quella del “divo“ Travaglio che lui tanto vorrebbe criticare. Anche Travaglio, alla domanda “perchè non ti occupi mai dell’undici settembre?”, rispose qualcosa come “non sono quelli i veri problemi, l’undici settembre è una stupidaggine, rispetto ai veri problemi”. Poi però passa il suo tempo a parlare di Berlusconi, personaggio che probabilmente non esisterebbe nemmeno – almeno non nelle attuali dimensioni - se non ci fossero stati gli attentati di quel giorno.

    Le risposte di Barnard e di Travaglio sono in realtà un modo poco coraggioso di svicolare il problema più grande di tutti, e il loro comportamento li rende complici – consapevoli o meno – del prolungamento nel tempo della colossale bugia dell’undici settembre, e di tutto quello che ne consegue.

    Ogni volta che nel mondo viene perpetrata un’ ingiustiza in nome della “guerra al terrorismo”, tutti i giornalisti che non abbiano fatto finora il proprio dovere - di informarsi e di informare a fondo la gente - ne sono in parte responsabili.

    E’ stato tramite i media che la bugia si è diffusa nel mondo, e solo attraverso i media questo danno potrà essere riparato fino in fondo. Se Barnard vuole davvero considerarsi un giornalista, sa bene da dove cominciare.

    Massimo Mazzucco
     
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  9. AdamClayton
     
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    Il punto di non-ritorno

    La sezione 11 settembre del sito, inaugurata nel 2003, esordiva con un capitolo intitolato “Il vero problema è psicologico”. Il testo diceva: Come potrà constatare chiunque affronti l'indagine a mente aperta, sgombra di preconcetti, gli indizi contro la versione ufficiale si rivelano presto essere di una quantità sconcertante. Ma per arrivare a vederli con chiarezza, bisogna prima rimuovere quella spessa corazza protettiva che tutti noi portiamo, e che ci impedisce di vedere tutto ciò che in qualche modo non saremmo in grado di accettare. Se sentiamo che un certo discorso ci porta verso una conclusione poco gradita, alziamo tutti istintivamente una barriera di rifiuto - gli americani lo chiamano denial, o diniego - assolutamente solida e impenetrabile, anche a costo di apparire ridicoli davanti al mondo.

    A cinque anni di distanza compare fra i commenti, in maniera quasi casuale, il post di un nuovo iscritto che vale la pena di rileggere per intero.

    ***

    Sull'11/9 ormai nessuna persona aggiornata ed in buona fede può avere dubbi:

    1 - La versione ufficiale è, fisicamente parlando, impossibile.

    2 - I "fatti", le immagini documentati e diffusi in tempo reale e non più alterati (registrazioni fatte personalmente il 9/11), se analizzati con attenzione, non sono spiegabili senza ammettere che siano stati eguiti lavori specialistici di cablaggio delle cariche esplosive nelle torri e nel Building 7.

    3 - Le "coincidenze" che hanno reso la debacle possibile (es. sette esercitazioni di sicurezza aerea che prevedevano aerei pirati -o nemici - nei cieli nordamericani), se non fossero state accuratamente coordinate avrebbero una probabilità di verificarsi su un milione di miliardi.

    E poi ci sono decine e decine di documenti che convalidano quanto detto sopra. Certo, non si dispone di prove che possano essere portate in tribunale, ma sulla base dei documenti pubblicamente disponibili (compresi gli incredibili “ritocchi” operati su certi materiali, ritocchi che in qualche modo convalidano operazioni di depistaggio con la loro sola esistenza), appare impossibile che almeno una parte importante della struttura dello stato non sia stata complice, se non il centro organizzatore e coordinatore dell'evento.

    Un paio di anni fa contattammo Andreas von Bulow, autore di "CIA und 9/11", ministro per la ricerca e già nella commissione parlamentare di controllo dei servizi informativi tedeschi. Volevamo invitarlo a tenere una conferenza sull'argomento. La sua risposta fu più o meno la seguente: a che serve, ormai ti fatti sono noti ed accettati, tutti sanno, non c'è più niente da aggiungere.

    Fu così che lasciammo perdere la conferenza: in effetti oggi chi può e vuole essere informato, chi è capace di affrontare i fatti con sufficiente apertura ed onestà intellettuale, non può avere dubbi su cosa sia successo il 9/11.

    Chi ancora oggi non accetta la realtà del 9/11, nonostante tutte le credibili informazioni che sono accessibili con un semplice click, semplicemente non “può“ farlo. Nè è possibile aiutarlo: si può portare il cavallo alla fonte, ma non si può farlo bere se lui si rifiuta!

    Anche senza voler considerare quelle persone preoccupate solo di difendere il loro "status" acquisito o altri interessi personali, o quelle che devono onorare debiti di appartenenza, dobbiamo arrenderci all'evidenza. Dall'esterno non sarà mai possibile rimuovere quei blocchi psichici attuati per difendere la propria sanità mentale di fronte a situazioni potenzialmente traumatiche.

    Troppe sono le tipiche reazioni del tipo: non può essere vero, se lo fosse sarebbe troppo orribile, quindi non è vero.

    D'altra parte è proprio la sua incredibile mostruosità che costituisce la migliore protezione dei perpetratori di questo evento mostruoso.

    Accettarlo vuol dire accettare che lo stato del faro della democrazia del nostro mondo sia disposto a sacrificare 3000 suoi cittadini in uno show Hollywoodiano per un oscuro fine.

    Vuol dire accettare che il campione delle libertà abbia messo in moto un programma di dimensioni paragonabili alla sua entrata in guerra dopo Pearl Harbour (quando 3000 vite innocenti furono sacrificate rinunciando ad una difesa possibile da un attacco conosciuto: ma si doveva garantire la credibilità del Presidente (alll'epoca la parola di un presidente valeva ancora qualcosa).

    Vuol dire accettare che Tony Blair ne fosse al corrente (forse prima di Bush), che Putin suia stato prontissimo a saltare sul carro in corsa, vuol dire che TUTTI i leaders che chi hanno chiesto sacrifici o che ci hanno chiesto di rinunciare a diritti civili, alla privacy, alle nostre libertà in cambio di sicurezza... in qualche modo oscuro fossero complici di questo atto di violenza inaudita che ha lo scopo, forse, di installare un “nuovo ordine mondiale” autoritario, poliziesco, vagamente Orwelliano.

    Vuol dire rinunciare a vedere nelle notizie del TG i vari episodi fondanti del “Nuovo Ordine Mondiale” come singoli alberi indipendenti, vuol dire doverli riconoscere come un'unica, minacciosa foresta.

    Vuol dire trovarsi a vivere in una realtà sempre più diversa da quella percepita dalla maggior parte dei “bravi cittadini”, da quella che ci è ammannita dai media e proposta dagli imbonitori.

    Forse tutto questo comporta delle scelte troppo coraggiose , in qualche modo troppo terribili per poterle chiedere a tutti: il coraggio, se uno non ce l'ha, non se lo può dare...

    alearge

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    Ringrazio questo nuovo utente per aver saputo sintetizzare – forse involontariamente - la fine di un percorso compiuto da moltissime persone come noi in Internet in tutti questi anni.

    Oggi le informazioni ci sono, e sono di facile accesso per chiunque le voglia trovare. Da quel punto in poi non sta più a noi deterninare quanto accade, ma sta alla coscienza del singolo cittadino.

    Forse non ce ne rendiamo conto, ma ci troviamo ad anni luce di distanza da quello che era il mondo fino a dieci di anni fa: le menzogne ci sono sempre state, ma per la prima volta nella storia il cittadino qualunque ha la possibilità di verificare di persona, senza filtri aggiuntivi, qualunque fatto importante che avvenga sul nostro pianeta.

    Da questo punto in poi il mondo, semplicemente, non potrà più tornare indietro. Nel bene come nel male.

    Massimo Mazzucco
     
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  10. AdamClayton
     
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    Osama, o Jarrah? Almeno uno dei video è falso

    Dopo il video da psicanalisi di Al-Zawhari, il “rivoluzionario” razzista che se la prende con Obama perchè non si comporta abbastanza da negro, arriva una video-confessione del leggendario Ziad Jarrah, l’uomo che fece abbattere il 757 sui campi della Pennsylvania piuttosto che lasciarlo fare ai passeggeri in rivolta.

    Come molti ricorderanno, infatti, la versione iniziale dei passeggeri che abbattevano l’aereo fu cambiata, quando le registrazioni del cockpit rivelarono la frase di Jarrah che diceva “Basta, facciamola finita!” (Evidentemente non ne poteva più delle urla di quei disgraziati che battevano alla porta, e volevano a tutti i costi arrivare da Allah prima di lui).

    Jarrah è anche il genio incompreso che scrisse la lettera d’addio alla fidanzata, la sera del 10 settembre, commettendo un madornale errore che avrebbe permesso all’FBI di risalire a lui ed al suo gruppo, un mese dopo gli attentati. Dall’antica Sezione 9/11 leggiamo:

    “Addio con ricevuta di ritorno.

    Ma la vicenda più curiosa di tutte è forse quella di Ziad Jarrah, ex-studente di medicina nella città di Bochum, in Germania, sospettato di essere alla guida proprio del volo caduto in Pennsylvania.

    Jarrah aveva una fidanzata, in Germania, e la sera prima di morire ha voluto scriverle una commovente lettera d'addio. Ma per qualche strano motivo, oltre alla lettera Jarrah ha voluto inserire nella busta anche i manuali di volo del Boeing 757, che evidentemente non gli servivano più. Pur conoscendo la ragazza da oltre cinque anni, Jarrah ha purtroppo sbagliato a scrivere il suo indirizzo (dove lui stesso aveva vissuto a lungo!). In compenso si è premurato di inserire, come "indirizzo di ritorno", quello del motel in cui avrebbe passato l'ultima notte della sua vita.

    Accadde cosi che la busta, dopo aver girovagato per mezza Germania, fu rimandata al mittente dalle efficientissime poste germaniche.

    Proprio in quel giorno passava da quelle parti un agente dell'FBI, che si era recato al motel per sapere se per caso vi fossero novità sui terroristi che avevano dormito in quel luogo un mese prima. Fu così che si ritrovò in mano la busta appena rientrata dalla Germania, e dai manuali di volo che conteneva capì immediatamente che Jarrah doveva essere stato il dirottatore del Boeing precipitato in Pennsylvania.”

    Aggiungiamo che la sera del 10 settembre, mentre Jarrah andava a spendere tutto quello che gli restava all’ufficio postale (avete un'idea di quanto pesi un manuale del Boeing? Mica è una bicicletta, quello), i suoi compari Atta e al-Suqami affittavano una macchina per andare a Portland, nello stato del Maine, in modo da essere obbligati a prendere un volo di ritorno per Boston, la mattina dopo, con una coincidenza talmente stretta da far restare a terra la sua preziosa valigia. Che conteneva il testamento di Atta, l’immancabile Corano, e..... altri manuali del Boeing, naturalmente!

    Pensate, nonostante nessuno di loro avesse mai pilotato un jet nella sua vita, in cabina i manuali non se li sono portati. Immaginate la scena, durante il dirottamento:

    Al-Suqami: Cos’è ‘sta levetta gialla, qui in mezzo?

    Atta: Dove?

    Al-Suqami: Questa qui lunga, che penzola un pò.

    Atta: Boh, non mi sembra di averla vista, sul manuale.

    Al-Suqami: Neanch’io.

    Atta studia la levetta da vicino.

    Atta: Boh, non c’è scritto niente.

    Al-Suqami: Infatti, non vorrei che fosse qualcosa di delicato. Prova a darci un’occhiata, perfavore....

    Atta: Ehmmmm, veramente...

    Al-Suqami: Veramente cosa? Sbrigati piuttosto, che qui andiamo a sbattere!

    Atta: Veramente... il manuale l’ho dimenticato in valigia...

    Al-Suqami: In valigia??? Ma sei deficiente? Mi spieghi a cosa serve il manuale in valigia???? Jarrah, guarda sul tuo perfavore.

    Jarrah (un filo di voce): Veramente, il mio l’ho spedito in Germania, ieri sera.

    Al-Suqami: In Germania? Ma siete rincoglioniti tutti, qui dentro?

    Jarrah e Atta, insieme: Pensavamo che non servissero più. Ormai, li avevamo imparati a memoria...

    La poderosa “memoria” di Jarrah, fra l’altro, è la stessa che gli ha appena fatto dimenticare l’indirizzo della ragazza con cui aveva vissuto 5 anni. Voglio dire, con una memoria del genere rischi di entrare nel cesso dell’aereo convinto di trovarci la cloche del comandante, altro che “levetta gialla”. E portatelo dietro ‘sto manuale, no?

    Comunque, torniamo al video “ottenuto dalla NBC”, che contiene “la confessione anticipata” di Jarrah, registrata addirittura un anno prima degli attacchi alle Torri Gemelle.

    Il buon giornalista che lo presenta si concentra sul fatto che Jarrah rida, nel video, e ci spiega che probabilmente il futuro criminale “non era del tutto convinto dell’operazione”. “Ma questo video spiega anche – dice sempre l’acuto commentatore – fino a che punto Al-Queda fosse disposta ad andare, pur di reclutare terroristi”.

    Non si capisce se si riferisca al potere ideologico di convinzione dei reclutatori, o al fatto che inizialmente Jarrah compaia con la classica sciarpa palestinese bianca e rossa, mentre più avanti la sciarpa diventa bianca e nera, poi bianca e rossa di nuovo. (Forse lo hanno convinto a partecipare offrendogli un guardaroba completo - un pò come la Palin, insomma).

    Nel frattempo nessun giornalista al mondo – e dico NESSUNO – si è ricordato che Osama bin Laden, nella sua storica confessione “della barba parlante”, aveva detto che “nessuno dei partecipanti era stato messo a corrente del piano fino a pochi istanti prima di salire sull’aereo”.

    Quindi, nessuno lo sapeva, ma Jarrah ha registrato la sua confessione addirittura un anno prima.

    Quanti milligrammi di cervello occorrono, a questo punto, per capire che almeno uno dei due video deve essere falso per forza?

    Massimo Mazzucco

    Il video di Jarrah http://video.corriere.it/?vxSiteId=404a0ad...300%3Cbr%20/%3E

    Anche Megachip ha trattato l'argomento. http://www.megachip.info/modules.php?name=...icle&artid=8339
     
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  11. AdamClayton
     
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    Se questo è un terrorista - 26/11/08
    di Pino Cabras - Megachip


    Ziad Jarrah, nelle versioni ufficiali dell’11/9, era il fondamentalista fanatico e suicida che pilotò l’aereo dirottato della United Airlines (volo 93) fino al suo schianto nelle campagne della Pennsylvania. Oggi ci viene mostrato un suo video risalente a qualche tempo prima. Come gli altri documenti sul “gruppo di fuoco” dei mega-attentati, anche questo conferma anomalie stridenti per il ritratto di un fondamentalista.

    Video e accertamenti ricavati da vari investigatori, anche dell’FBI, e ignorati dalla Commissione sull’11/9, ci mostrano dei giovani ben poco pii, per nulla dediti ad austere consuetudini salafite, e molto inclini a momenti di vera débauche, ubriacature, cocaina, vestiti alla moda e gioielli, senza trascurare qualche braciola di maiale.
    I presunti dirottatori Marwan Alshehhi e Hamza Alghamdi – ad esempio - acquistarono video porno e giocattoli erotici per centinaia di dollari in Florida. Spesero 252 dollari in video e 'giocattoli' ai primi di luglio 2001, e poi altri 183 dollari nel corso di quel mese. Come se non bastasse, Satam Al-Suqami probabilmente pagò per un'accompagnatrice a Boston il 7 settembre 2001. Alshehhi venne inoltre riconosciuto da sei ballerine del Cheetah’s, un nightclub di Pompano Beach, Florida. Questo combacia con altre prove del fatto che i dirottatori bevevano alcol, pagavano per ballerine di lap dance, guardavano video porno, ecc., ben lontani dal comportamento che ci si aspetterebbe da dei religiosi radicali.
    Le presenze dei presunti dirottatori in bar e ristoranti lasciano grandi tracce con le carte di credito. Va detto che alcune carte di credito usate dai presunti dirottatori furono usate ancora negli USA dopo l'11/9. Per esempio, una carta di credito posseduta congiuntamente da Mohamed Atta e Marwan Alshehhi venne usata due volte il 15 settembre. Ciò risulta di sostegno alle notizie giornalistiche di fine 2001 che riportavano che le carte di credito dei dirottatori furono usate sulla Costa orientale degli USA non più tardi dei primi di ottobre del 2001.
    In ogni caso, sappiamo anche che i linceziosi picciotti di al-Qā‘ida non disdegnavano le sale da gioco di Las Vegas, altro luogo in cui dei musulmani non fanno esattamente la figura dei devoti al Corano.
    Nulla si sa sulla data originale del filmato di Jarrah tirato fuori dalla NBC. Di norma gli aspiranti attentatori suicidi filmano i loro testamenti video alla vigilia dei loro attentati. Sono intesi come un messaggio finale alle proprie famiglie, e come uno strumento di propaganda da trasmettere in ambienti di militanti. L’assenza di dati così specifici si presta a manipolazioni e deviazioni che aggiungono dubbi, più che risolverne.
    Ziad Jarrah appare impacciato, come se recitasse controvoglia, senza solennità, un copione idiota in cui non crede minimamente, tanto che gli scappa da ridere, come uno che esclami “che s’ha da fa’ pe’ campa’!”
    A sostegno della versione ufficiale, i suoi mitografi hanno interpretato così il video di Jarrah: guardate come sono insidiosi questi fondamentalisti, si sono mimetizzati così bene da diventare il vostro invisibile vicino, la minaccia nascosta della porta accanto. Gente normale, in apparenza, ma assassina.
    È possibile una diversa lettura di simili comportamenti? Lo spiegava bene Jim Garrison, nel suo libro JFK - Sulle tracce degli assassini (Milano, Sperling&Kupfer, 1992 ) al capitolo 5, intitolato “La messa a punto del capro espiatorio”: nel gergo dei servizi segreti una lunga operazione che si svolga nel corso degli anni e faccia compiere a una pedina, inconsapevole vittima sacrificale, gesti che solo in seguito verranno capiti e interpretati, si dice “inzuppare la pecora” (sheepdipping).
    Allora sono possibili diverse ipotesi investigative sugli atti della “pecora inzuppata” Ziad Jarrah, differenti dal balbettante sconcerto che invece ha accolto questo video sui media mainstream. Di certo Ziad Jarrah appare coinvolto in veste di esecutore di un qualche segmento delle azioni terroristiche dell’11/9, magari per mandare fumo negli occhi. Ma il suo profilo – come quello degli altri presunti dirottatori - non appare adeguato al grado di complessità dell’operazione.
    Qualche anno fa il generale Fabio Mini diceva che si tratta di scovare «non quelli che hanno condotto l'attacco, né quelli che hanno pianificato e diretto le operazioni, ma coloro che hanno ideato il piano». Essi hanno capacità, che bin Lāden e associati non possiedono, «da geni della politica, della strategia e della guerra».
    Il filmato con le papere di Jarrah è un piccolo tassello di conferma.
     
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550 replies since 22/5/2006, 12:35   7305 views
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