ROLLING STONE GIUGNO 2007

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  1. AdamClayton
     
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  4. ed79
     
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    thanks luca!
     
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  5. bobmanno
     
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    bravo Adamo
     
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  6. norain
     
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    non sapevo della fase ecstasy.... :blink: :blink: :blink:
     
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  7. Frank Gibson
     
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    qualcuno ha delle immagini in miglior qualità?
     
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  8. AdamClayton
     
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    Hai ragione Frank.
    Ho scannerizzato in fretta e proprio male.

    Purtroppo in casa non trovo più quel numero.

    Sorry.

     
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  9. veddie
     
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    non vi perdete niente, a mio modestissimo parere...articolo abbastanza inutile e confusionario
     
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  10. AdamClayton
     
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    Eddie Vedder: «Io confesso»
    Mentre i Pearl Jam tornano in Italia a incantare dal vivo, “RS” passa con il loro leader cinque giorni in tour

    Andarsene in giro con i Pearl Jam, come ho fatto per cinque giorni durante il loro tour americano, è come tornare in contatto con i vecchi amici del liceo: sono anni che non li vedi, ma in qualche modo ti sorprendi nello scoprire che hanno avuto il coraggio di cambiare mentre tu non stavi guardando. L’anno scorso il gruppo ha pubblicato Pearl Jam, il loro miglior lavoro dai tempi di Vitalogy (1994), e il primo, dal loro debutto nel 1991 con Ten, a pretendere attenzione grazie alle sue coraggiose liriche. «Mi sentivo come se avessimo sempre consegnato in tempo i compiti in classe, e avessimo preso sempre ottimi voti, ma senza aver mai alzato la mano e parlato in classe», mi dice Vedder dopo un concerto a Cleveland. «Ecco, questo disco siamo noi che parliamo ad alta voce durante la lezione». Nei giorni del tour americano che ho trascorso con i Pearl Jam, i membri della band mi sono sembrati allegri e rilassati, diversamente dall'immagine, ormai distorta dal tempo, che si ha di loro: seriosi, paranoici e sempre sull'orlo dell'implosione.

    A dirla tutta questi ragazzi vanno talmente d'accordo e stanno così bene con se stessi da potersi permettere di accogliere tra di loro un estraneo, che vuole assistere ai sound check e che non li molla mai quando salgono e scendono dal palco. Spesso, si scambiano un colpetto sul polso prima di ogni concerto, e alla seconda serata, McCready ne dà uno anche a me. Quando per la prima volta i Pearl Jam hanno conquistato la fama, Eddie Vedder era convinto che c'era ben più della sua anima a rischio. «Ho avuto alcuni problemi con dei tizi che mi perseguitavano e di cui non ho mai voluto parlare», mi racconta un pomeriggio nella sua suite al Four Seasons di Chicago. I suoi occhi si assottigliano e continua, parlando piano: «Una tizia con dei seri problemi mentali e squilibri psichici ha finito per prendermi di mira; era convinta che tutte le nostre canzoni fossero scritte pensando a lei, che io fossi il padre dei suoi due figli, che i suoi figli fossero nati da uno stupro, che io fossi Gesù e che Gesù violentasse le donne». Vedder è vago sui dettagli, ma il problema sembra si sia fatto veramente serio tra il 1994 e il 1996. Lui e Beth Liebling (che Vedder ha sposato nel 1994 e da cui ha divorziato nel 2000) fecero erigere nuove recinzioni intorno alla loro casa di Seattle e si procurarono un servizio di sicurezza attivo 24 ore su 24. Tuttavia, un giorno, mi rivela: «Questa donna ha lanciato la sua macchina a 80 all'ora contro il muro di casa mia, rischiando di uccidersi». Alla fine Vedder ha trovato un altro posto dove vivere, fuori Seattle, in un luogo che ancora non si sente di rivelare. Intorno al 1996, decise che ne aveva abbastanza della notorietà e dei dischi di successo; quando si trovava in studio di registrazione, le potenziali hit incominciarono a sembrargli «pericolose per la sua vita». La band iniziò a rilasciare sempre meno interviste. Vedder incominciò a ridurre la produzione di quei pezzi orecchiabili, tipici del repertorio dei Pearl Jam, ragione per cui alcune delle produzioni più pop del gruppo si possono trovare in Lost Dogs, un album di b-side. «Pensavo che una popolarità sempre crescente ci avrebbe distrutto e che le nostre teste sarebbero esplose», mi confida. Kurt Cobain dei Nirvana ebbe ben più problemi nell'affrontare la sua fama improvvisa e la sua reclusione lo portò davvero a un punto di non ritorno. Cobain accusò i Pearl Jam di farsi promotori di «una fusione cock-rock (termine denigratorio con cui si indica un tipo di hard rock testosteronico in auge negli anni 70, ndr) tra musica alternativa e sonorità delle major discografiche». «Non credo che abbia mai capito a fondo la nostra band», dice Vedder, «eppure penso che se fosse ancora vivo, ci avrebbe capiti, alla fine». Il 10 settembre 1992, Vedder e Cobain si riconciliarono agli Mtv Video Music Awards: «Ballavamo un lento sotto il palco, mentre Eric Clapton stava suonando Tears in Heaven», racconta Vedder. «Sì, hai capito bene, ballavamo un lento come fossimo ancora dei ragazzini».

    La leggenda narra che, una volta ricevuta a San Diego la demo di Gossard, McCready, Ament e Matt Cameron, con le versioni strumentali di Even Flow e Alive, Vedder, che lavorava in una pompa di benzina, scrisse il testo delle canzoni in un'unica seduta, mentre faceva surf. Questa particolare storia, mi racconta nella sua camera d'albergo di Chicago, è «vera al 100%». Ma ammette che un'altra panzana che si sente spesso raccontare in giro non corrisponde proprio a verità: ossia che il nome dei Pearl Jam venisse da Pearl, la bisnonna, di Vedder, che lui sosteneva fosse stata sposata con un indiano americano e avesse l'abitudine di fare delle conserve (“Jam”, appunto) corrette con diversi allucinogeni. La sua bisnonna si chiamava davvero Pearl; il resto è invece «una stronzata colossale». La verità è che mentre erano in un ristorante di Seattle a discutere in libertà su un possibile nome per sostituire quello precedente, Mookie Blaylock (ispirato a una star dell'Nba), ad Ament è venuto in mente “Pearl”. Poi, durante un viaggio a New York per firmare con la Epic Records, Gossard, Vedder e Ament andarono a vedere Neil Young in concerto. «Suonava nove canzoni in tre ore. Ogni canzone era una jam session di 15, 20 minuti», racconta Ament. «È così che abbiamo aggiunto “Jam” al nome. O perlomeno è così che mi sembra siano andate le cose». Eddie Vedder sta cercando di farmi ubriacare, mentre chiacchieriamo nella sua suite dopo il concerto di Cleveland. Con un accendino, apre una bottiglia di Bud e me la passa: prima che l'abbia finita, cerca di passarmene un'altra. Vedder si è già scolato una bottiglia di vino rosso sul palco, come fa di solito, quindi adesso beve più lentamente, godendosi la sua Coors. «A dire il vero, ho provato a esibirmi a un paio di concerti senza bere», mi dice nel corso della serata. «Hai presente come i baristi di tanto in tanto si facciano un bicchierino, mentre invece all'aiuto cameriere è proibito? Ecco, mi sono sentito un aiuto cameriere, come se stessi solo lavorando». Poi si mette a raccontarmi di quando ha incominciato a cantare: aveva sei anni; e un tempo, dice, riusciva a riprodurre le note più alte dei pezzi di Michael Jackson tratti dai suoi album con i Jackson 5. «Quando la mia voce è cambiata, mi sono detto: “Wow, all'improvviso sembro James Taylor”».

    Un tempo, Vedder fumava regolarmente ganja, ma ha smesso quando è nata sua figlia Olivia, nel 2004. In passato, per qualche tempo, ha attraversato «una fase ecstasy» e ha persino cercato di registrare della musica techno. «Ascoltavo quella roba quando ero fatto di ecstasy. Ma mi domandavo: “Scriveranno la musica strafatti?”. Così decisi che il modo più puro per farlo, fosse assumere quella sostanza e poi comporre musica ecstasy», mi dice, ridendo. «Alla fine, la cosa non ha funzionato. Ma me la sono spassata con la droga». Quando gli chiedo della canzone Life Wasted, uno dei pezzi più struggenti dell’ultimo disco, Vedder socchiude gli occhi e mi racconta di come assistere al funerale di un amico possa servire per «renderti conto di quale dono sia essere vivo. Per quanto mi riguarda, la canzone serve a ricordare quella sensazione». Eddie Vedder aveva in mente un amico in particolare quando l’ha composta: «Sto parlando di Johnny Ramone. La verità è che una buona metà del disco è dedicata a lui». La loro fu un'amicizia alquanto bizzarra. Il chitarrista dei Ramones, che morì il 15 settembre 2004, circa un mese prima che i Pearl Jam incominciassero le sedute di registrazione del nuovo album, era un accanito repubblicano e, a detta di molti, un tipo non proprio alla mano. «Ricordo che ridevamo insieme quando gli dicevo che l'avevo fatto sembrare un essere umano più simpatico mentre lui mi aveva fatto apparire più come uno stronzo», mi dice. Vedder, insieme a John Frusciante, Vincent Gallo e Rob Zombie, ha trascorso ore nella casa di Ramone, dove Johnny metteva su della musica su un jukebox e mostrava degli spezzoni di performance, da Gene Vincent ai Dead Boys. «Eravamo gli studenti di Johnny Ramone, legati per sempre a lui. Non mi era mai capitato di sperimentare sulla mia pelle la perdita di una persona con cui passavo così tanto tempo a parlare, così in profondità e con una simile intimità». Adesso passiamo a un'altra questione tosta: la rottura, avvenuta nel 2000, del suo matrimonio con Beth Liebling, con cui usciva sin da quando era adolescente.

    Vedder non vuole spiegarmi il motivo della separazione, ma mi dice che ne è uscito devastato. Il divorzio è avvenuto all'incirca nello stesso periodo in cui è successa la più grande tragedia della carriera dei Pearl Jam: il 30 giugno di quello stesso anno, nove giovani fan morirono schiacciati durante un loro concerto al Roskilde Festival, in Danimarca. «Puoi immaginare in che razza di stato mi trovassi», mi dice. «Ricordo che pensavo non ci fosse più alcuna via di uscita». Poi Vedder incontrò Jill McCormick, che faceva la modella, professione che lui stesso aveva criticato con parole aspre nel pezzo Satan's Bed, in Vitalogy: «Esempi così superbi, piccole troiette magre / Modelle, modelli di comportamento, cospargetele di sangue / Fate in modo che un po' di carne rimanga su di loro così che possano sembrare simili a noi». Quando gli chiedo se si sia scusato per quel testo, scoppia a ridere: «Ci sono stati giorni in cui mi dicevo che la situazione sembrava piuttosto contraddittoria. Perché mi potessi di nuovo innamorare, questa relazione ha dovuto sottoporsi a test ben più difficili. E li ha superati». Ma prima dell'inizio della nuova storia d'amore, mentre Vedder si stava ancora disperando per la tragedia di Roskilde e per il divorzio, la band era di nuovo in tour. Ad aprire il concerto c'erano i Sonic Youth, e al seguito con loro c'erano Thurston Moore e Coco, la figlia di sei anni di Kim Gordon. «Mi regalava dei disegni, giocavamo insieme a ping-pong. Coco mi ha ricordato di aprirmi, mi ha impedito di essere lo stronzo acido che avevo ogni diritto di essere. Dopo Roskilde, mi sono detto: “Ok, questa è la mia chance: posso essere quello stronzo per sempre”. Coco mi ha fatto vedere la luce. E oggi ho una figlia mia». Mi mostra una serie di deliziose foto di Olivia Vedder. Sono quasi le cinque del mattino; scuote la testa e mi fissa negli occhi: «Roger Daltrey aveva l'abitudine di dire sempre: “Sii fortunato”. Mi ci sono voluti un po' di anni per afferrarlo, ma poi ho seguito il suo consiglio».
     
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9 replies since 30/5/2007, 12:35   812 views
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